“That rock ‘n’ roll, just won’t go away”
(Alex Turner, Brit Awards 2014)
“Il rock’n’roll è morto. Ormai è un pezzo da museo”. È con queste parole cariche di amarezza che molti amanti della musica descrivono l’attuale scena musicale. Per loro il rock ‘n’ roll ha cessato di essere la musica più eccitante sul pianeta, con la conclusione dei mitici 70’s, quando gli Stones iniziarono ad esibirsi negli stadi. Io invece, non ho mai avuto questa visione così apocalittica: nutrendo un particolare ottimismo per tutto ciò che riguarda le sette note, ho sempre pensato che il rock’n’roll avesse ancora qualche asso nella manica. Il rock è sempre pronto a tornare attraverso nuove onde sonore.
La seconda giornata dell’All Points East Festival di Londra (giunto alla seconda edizione) sembra confermare, almeno sulla carta, la mia teoria. La line-up è quanto di meglio ci si possa aspettare: Fat White Family, Anna Calvi, Courtney Barnett, Parquet Courts, Johnny (Fucking) Marr, Jarvis Cocker, Interpol, Raconteurs e ciliegina sulla torta, The Strokes. Praticamente un Eden dell’Indie-Rock. Ma come per ogni festival dalla line-up tanto intrigante, i clash di orari tra i vari artisti diventano inevitabili. Così succede di dover scegliere tra Anna Calvi piuttosto che Parquet Courts e Courtney Barnett versus Johnny Marr. Per chi scrive, optare per un’artista rispetto ad un altro, si rivela arduo come dover scegliere il piatto preferito preparato dalla mamma. Ma questa è la vita da festival e così si finisce per seguirne il flusso.
Si inizia con i Fat White Family, reduci dal successo dell’ultimo album Serfs Up!. La band attacca con When I Leave e Lias Saudi conquista subito il suo pubblico infuocato, anche per via del sole battente che rende l’atmosfera simile al californiano Coachella Festival (organizzato dallo stesso team dietro ad All Points East). I Fat White Family non sono più gli spregiudicati di un tempo, ma Lias passa gran parte del set arrampicato sulle transenne a stretto contatto con la folla. Il Glam-Rock di Tastes Good with the Money travolge il pubblico sul finale: è il momento in cui il gruppo risalta maggiormente. I Fat White Family non hanno ancora trovato una propria dimensione live, ma ci lasciano con la curiosità di seguirli in quello che si preannuncia un interessante futuro.
A seguire la movimentata band di Peckham è Anna Calvi. Siamo su tutt’altri orizzonti in cui la precisione del suono e della performance diventano l’aspetto fondamentale del live. Quello della Calvi è uno show che sa quasi di rock operistico, tanta è la sua capacità vocale. La cantante apre con Hunter, dall’ultimo album omonimo, seguita da Rider to The Sea e No More Words. Ad ogni pezzo si alternano lunghi virtuosismi alla chitarra che ricordano uno degli idoli della Calvi, quell’eterno Jimi Hendrix a cui tanti musicisti si ispirano. La sorpresa del set è la cover di Ghost Rider dei Suicide, che per chi scrive diventa un viaggio nel tempo fino alla New York del CBGB. Una piccola perla per un pubblico affamato di musica. L’esibizione della Calvi va in perfetto contrasto con quella dei Fat White Family: da una parte un rock sporco e quasi maleducato, dall’altra, una perfezione stilistica riscontrabile in pochi altri artisti.
Poi arriva il momento tanto agognato della scelta tra Jarvis Cocker, Johnny Marr e Courtney Barnett. In molti, probabilmente, avrebbero optato per le due leggende dell’Indie Rock, ma io, che credo ancora nella musica giovane, scelgo (non nego senza dolore) la sempre più affermata Courtney Barnett. C’è qualcosa che mi attrae nel suo rock disimpegnato. La scelta risulta azzeccata: Courtney appare sul palco visibilmente allegra con l’usuale tenuta in jeans neri e t-shirt bianca. Ancora una volta il contrasto torna ad essere il leitmotiv della giornata; il rock ‘n’ roll della Barnett è tutto ciò che quello della Calvi non è: semplice e immediatamente orecchiabile. Brani come City Looks Pretty, Need a Little Time, Avant Gardener e soprattutto il soft-rock di Depreston, trovano nella semplicità la loro forza. Dal vivo poi diventano più potenti, entusiasmando i tanti accorsi a vedere il set. Courtney conclude con uno dei suoi brani più celebri, l’irresistibile Pedestrian at Best.
L’adrenalina sale, si fa palpabile ovunque. Purtroppo, non c’è tempo per vedere gli Interpol (altro grande dolore) se vogliamo assicurarci una buona posizione per la band che aspettiamo da tutta la giornata, gli Strokes. Riusciamo ad intravedere i Raconteurs di Jack White e a ballare su Steady As She Goes. Ma ora è il momento del gruppo newyorkese. L’ultima mezz’ora di attesa è tremendamente lunga, il pubblico li chiama e finalmente si accendono le luci sul palco. Il tanto celebre logo degli Strokes compare sullo schermo alle spalle della batteria. I cinque entrano.
Parte Heart in a Cage ed è il delirio; il sound però è sorprendentemente basso. Il pubblico sovrasta Julian Casablancas, di cui non si riesce a sentire la voce. I problemi tecnici continuano per tutta la prima parte del set, tanto che la folla inizia ad urlare: Turn it Up! Turn it Up!. Nonostante tutto, la setlist è una bomba: You Only Live Once, Hard to Explain, Meet Me in the Bathroom e On the Other Side. Con le prime note di Reptilia, i problemi tecnici sono ormai lontani: il pezzo è talmente frastornante da superare qualsiasi ostacolo. Da qui fino alla conclusione del live, gli Strokes tirano fuori una serie di brani che fanno dimenticare tutto: esiste solo la loro musica. New York City Cops è un trionfo, così come What Ever Happened? e 12:51.
Julian appare divertito sul palco, conscio del volume basso della musica, ma capace di oltrepassarlo con il suo carisma e con delle canzoni che sono ormai inno di una generazione. Basta vedere come il pubblico si unisce alla band nel cantare Someday o la passione con cui viene accolta Is This It?. Per buona parte del brano il microfono di Julian non funziona: “You guys know the words better than me anyways” commenta il cantante. È una band che, nonostante i problemi tecnici, rasenta la perfezione. Con il finale, affidato all’ormai mitica Last Nite, Nikolai Fraiture, Nick Valensi, Albert Hammond Jr, Fabrizio Moretti e Julian Casablancas si confermano i re incontrastati dell’Indie Rock.
Quando tutto si è concluso, il riverbero delle chitarre sembra aleggiare ancora nell’aria. Dopo una giornata contrassegnata da punk rock, virtuosismi e reminiscenze della New York dei Velvet Underground, sono ancora più convinta che il rock ‘n’ roll non si sia spento. Ha solo assunto nuove vesti, forme e significati diversi. Forse non avrà più il potere di cambiare la storia, ma quello di farti sentire meno solo, quello sì, ce l’ha ancora. Ed è questa la cosa più importante.
Come cantava una volta Neil Young: Rock ‘n’ Roll Will Never Die.