Cosa rimane degli Alice in Chains?
Jerry Cantrell, Sean Kinney, Mike Inez hanno recentemente trovato nel nuovo cantante William Duvall una nuova dimensione, superando la drammatica dipartita dell’ex cantante Layne Staley e la stasi estenuante che ne è conseguita. Fino allo “Tsunami Benefit tour” del 2004, la band non suonò più, senza tuttavia dare mai voce ad una ufficiale separazione. Forse ripercorrere gran parte del vecchio repertorio davanti a schiere di fan commossi, insieme con altre megaband in aiuto ai paesi vittime del tifone, ha aiutato i tre a ricostruire la giusta confidenza nei propri mezzi per emanciparsi dal baratro che li teneva prigionieri del proprio passato.
Il dodicesimo passo della riabilitazione della band si è compiuto con la registrazione di “Black gives way to blue” ottimo lavoro datato 2009, in cui per la prima volta in dieci anni, il nucleo duro degli alice si riunisce con il promettente William Duvall, e registra undici tracce di cui almeno metà sono capolavori e l’altra metà comunque canzoni molto godibili. Il nuovo cantante si rivela potente, incazzato e ragguardevolmente rispettoso dell’eredità che gli è stata affidata, anche se i testi, le canzoni, restano saldamente ancorate alla figura di Cantrell, che porta avanti l’essenza storica del gruppo, intrisa di connotati ancora più cupi, ossessivi e sludge in una sorta di estremo saluto a Layne che scioglie il cordoglio durato dieci anni.
“The devil put dinosaurs here” è decisamente un’altra storia.
In questo nuovo disco, Jerry non affronta più i propri demoni personali (droga, invecchiamento, solitudine), ma alleggerisce il tiro e, complice una ritrovata serenità, i brani si colorano (nostro malgrado) di tinte radio friendly e ritornelli melensi degni dei Nickelback in trip di acidi (Low Ceiling e Lab Monkey). Alcune tracce notevoli (le prime 3, nominalmente: Hollow, Pretty Done, Stone) cedono il passo a canzoni medie come la parrocchiale Voices, o proprio fiacche come la title track The devil put dinosaurs here (qualcuno si ricorda di Love hate love del primo Facelift?) che già dal titolo appare di un’ingenuità insulsa e inefficace. Breath on a window vira ancora più indietro verso il passato sleaze della band riprendendo sonorità gunsandrosesiane mentre Phantom Limb fomenta l’headbanging rifacendosi ai Megadeth. Segue la ballata country scalpel. Migliore la conclusiva Choke, memore dei capolavori unplugged del passato.
Per quasi tutto l’album si recupera a piene mani dal repertorio dei vecchi Alice in Chains, impastando riff già sentiti, rallentati e depotenziati, ricalcando la vena vagamente doom che aveva funzionato nel penultimo lavoro, ma che in questo appare scolorita. Le voci dei due cantanti sono forse il punto di forza del disco. L’uso dei cori e delle armonizzazioni vocali risulta ancora il tratto distintivo della band ma, per quanto ben orchestrate e tutto sommato originali, le voci suonano fredde e asettiche, non riuscendo a sostenere, nonostante le numerose mandate di sovraincisioni ed effetti, il suono generale del gruppo che rimane povero. La batteria appare troppo distante nel mix, priva di impatto sonoro, e forse anche per questo l’album suona mediamente più fiacco di qualsiasi altro lavoro della band, mentre basso e chitarra sono mescolati a formare un’amalgama impastata, talvolta non intelligibile.
Autoplagiandosi i riff laddove manca l’ispirazione per sorreggere una nuova identità, in mezzo ai limati ritornelli pop, appaiono alcune buone idee, ma si tratta di momenti di fuggitiva grazia, e non sopravvivono per il tempo necessario a rendere le canzoni memorabili.
Se nell’album del 2009 emergeva chiaramente la volontà di tributare gli onori alla leggenda di Layne Staley e rendere conto alle legioni di fan che il gruppo era, almeno per il momento ancora in vita, in questo non si percepisce quale sia l’intento di una band, che finalmente libera dai fantasmi del proprio passato ha carta bianca sul proprio futuro, ma di fatto non concretizza nulla di fortemente innovativo e degno di nota.
Parliamoci chiaro: “The devil put dinosaurs here” è un buco nell’acqua.
Un gruppo così, che si odia o si ama, (ma si fatica ad ignorare) questa volta ci pone dinanzi ad una scelta tutt’altro che netta. Sperare che una delle band più amate nel panorama del grunge possa restituire quell’ampiezza di coinvolgimento emotivo che sapeva suscitare in passato è forse un po’ pretenzioso, ma c’è quantomeno da augurarsi che nella nuova direzione artistica intrapresa si allontani dall’obiettivo del rock da classifica e torni a regalarci qualcosa di originale.
Capitol, 2013