Tempo fa, un caro amico scrisse un pezzo sugli Algiers, sulla loro musica e la loro potenza live, senza però fare alcun cenno alla loro attitudine alla protesta, al loro impegno politico. Chiese un feedback che fu inevitabile: bell’articolo, ma non parla degli Algiers. Perché raccontare la band di Atlanta senza citarne il carattere militante è come parlare di un collettivo che annovera gli stessi membri della band, senza essere quella band. Gli Algiers sono un progetto, nel senso più completo e complesso del termine.
Si comincia dal nome, che richiama le lotte anticoloniali algerine condotte da Saadi Yacef e riporta alla mente un pilastro culturale del nostro Paese, che vanta il contributo proprio di Yacef stesso: La Battaglia di Algeri, pellicola del 1966 diretta di Gillo Pontecorvo. Si tratta di un film politico uno nel suo genere, ancora oggi studiato dai cinefili di tutto il mondo e considerato tra i più importanti film storici mai prodotti in Europa, anche grazie alla sua straordinaria capacità di capire e far capire la differenza tra resistenza e terrorismo. Da questo fondamentale punto di partenza si muove il gruppo americano, che trasla la potenza storica di quel contesto verso le vicende di abusi di potere di cui la recente storia americana è disseminata.
Ma come si traduce tutto questo impegno e questo contenuto in una performance? Sicuramente con l’anticonformismo. Per questo pur appartenendo vagamente al mondo del revival post-punk dello scorso decennio gli Algiers se ne discostano con veemenza, mettendo in scena uno spettacolo che non teme termini di paragone, ma semplicemente perché non ne ha. Questo non significa che il loro concerto sia sensazionale e privo di difetti – qualcosa da rivedere ci sarebbe – ma è senza dubbio interessante e unico, quindi da preservare e supportare.
Gli Algiers salgono sul palco dello sPAZIO211 di Torino in due modalità: da un lato c’è chi vuole spremere le ultime energie di un tour a dir poco clamoroso cercando di chiudere con un climax, dall’altro chi cerca quelle ultime energie raschiandole dal fondo. Il batterista Matt Tong rientra in quest’ultimo caso e prende posto sul suo drum throne con l’espressione di un sopravvissuto. Più che sedervisi, ci aleggia sopra come uno spettro. Al contrario, Ryan Mahan – basso e synth, ma anche intrattenimento puro – sembra pronto al suo show nello show e non perde tempo: imposta il mood della serata su un livello difficile da reggere, per quasi chiunque altro.
Franklin James Fisher, voce e frontman degli Algiers, sta nel mezzo. Non sembra intenzionato a strafare, ma neanche ad arrendersi alla prova forse eccessiva alla quale hanno deciso di sottoporsi. Quella di Torino è infatti la ventinovesima data in un mese e mezzo di tour, ma, se si esclude la data 0, diventano ventotto date in appena trentasei giorni. Un’autentica follia. Franklin però può contare su una voce soul di indubbio fascino, su una grande presenza scenica e su un comprimario che gli concede qualche momento di recupero, catalizzando su di sé tutta l’attenzione.
Shook (di cui vi abbiamo parlato qui) è l’ultimo album in studio del combo americano ed è talmente ricco, tanto nella forma quanto nel contenuto, da trasformare anche le esibizioni dal vivo. Gli Algiers partono dal post-punk, ma lo relegano a mero ingrediente di una miscela molto più complessa, che include soul, rockabilly, jazz, industrial e soprattutto hip-hop. Tutto questo dimostra come la loro maturità si sia propagata dall’attitudine al songwriting, grazie anche ai tantissimi featuring che contaminano e arricchiscono le diciassette tracce dell’ultimo lavoro. Irreversible Damage, brano che ha visto il tocco magico di Zach de la Rocha dei Rage Against The Machine, e I Can’t Stand It!, in collaborazione con Samuel T. Herring dei Future Islands, si configurano come gli episodi più convincenti tra le new entry, almeno finché il rap di Bite Back non arriva a stabilire una nuova gerarchia in scaletta e a mostrare la vera nuova veste degli Algiers.
Un melting pot musicale elettrizzante, che spiega anche perché la band abbia tutta questa smania di suonare il più possibile, in più posti possibili. C’è urgenza, perché quella degli Algiers è una chiamata alle armi. Se ti trovi sotto al loro palco, rispondere con convinzione diventa un imperativo categorico. Ryan Mahan nello specifico, non tollera i disertori. Per questo esorta ogni singola persona a partecipare attivamente. Non vuole solo gli applausi, vuol percepire qualcosa, vuole sostanza. E Torino risponde, prima timidamente, poi con un po’ più di vivacità, fino ad accompagnare solennemente la Death March conclusiva e quella domanda perpetua che ancora oggi necessita una risposta: “how the hate keeps passing on?”