Nella raccolta di scritti “Il Soviet psichico”, pubblicata in Italia da Double Nickels, Ian F. Svenonius esplorava la storia del rock con un approccio da materialista storico, arrivando a domandarsi se fosse mai esistita una musica di resistenza nell’industria discografica statunitense. Il provocatore delle notti punk di Washington – così radicale da essere a tratti comico – raccontava i Beatles come gli iniziatori di un culto dell’Anticristo, e il passaggio all’elettrico di Bob Dylan come un tradimento alla grande comunità del folk, un vendersi all’industria per essere più cool e individualista come chiedeva l’America. Svenonius proponeva infine un atto di resistenza per sottrarsi all’ansia capitalista: rifugiarsi nel proprio soviet psichico, uno spazio cerebrale e libero di dissidenza. Sarebbe molto curioso in quest’ottica sapere cosa ne pensi Svenonius di un gruppo come gli Algiers, dell’energia creatrice della loro musica, dell’ultimo album Shook, dei suoni che riescono a liberare, della loro attitudine alla protesta.
Gli Algiers suonano come un liberatorio catalizzatore della rabbia dei dannati della terra in un tempo di puro shook. Con un nome che vuole riportare alla mente le lotte anticoloniali algerine, il gruppo non ha mai nascosto la natura politica e militante del progetto. Sarebbe riduttivo restringere la loro musica a un genere come il post-punk; gli Algiers sono un cantiere in movimento, hip-hop, soul, industrial, probabilmente non è mai stato tra i loro interessi rientrare nei ranghi di un prodotto di genere. La loro musica è fatta per mescolare suoni, influenze, appartenenze. Se le strade di Atlanta sono quelle dove è nato il bozzolo primordiale del progetto, è estendendosi verso i cieli di Londra che il gruppo ha trovato la formazione completa e il linguaggio espressivo. L’energia anticolonialista come spazio di resistenza contro la violenza e il razzismo. Il fuoco radicale della voce di Franklin James Fisher. La musica al centro della faccenda, come atto di sovversione al potere.
Il percorso degli Algiers è movimento tellurico di scontro (contro l’isterica violenza della società) e incontro (con l’altro). Un percorso animato da un dissenso che ritroviamo nei loro dischi, e che negli anni li ha portati a incontrare il combattente per l’indipendenza algerina Saadi Yacef, o a reinterpretare un pezzo in versione estesa in memoria di George Floyd. Shook segue questo percorso, e arriva come il tentativo di una fotografia radicale a un’epoca di trasformazione. Le sue diciassette tracce sono affollate di incontri.
In Bite Back troviamo il rapper Billy Woods, una delle voci più originali (e sommerse) d’America nel prendere le parti dei dannati della terra. Da Samuel T. Herring dei Future Islands, a Zack de la Rocha dei RATM, all’avanguardista musicista egiziana Nadah El Shazly, sono numerose le collaborazioni presenti nel disco, cosa che contribuisce a rendere Shook un oggetto strano e generoso, un disco energico e rocambolesco, che passa agilmente dallo spoken-word al rap, dalle asperità industrial all’eccitante gospel-jazz di Green Iris. Nel rutilante calderone di Shook c’è posto per un eccesso di sentimenti contrastanti, per la rabbia incandescente dei testi, e per la gioia confusa con cui l’orecchio non riesce a distendersi al punto da ammansirsi, agitato com’è dal grande marasma sonoro. È musica radicale o pura agitazione? Quando Irreversible Damage parte con la sua travolgente carica elettrica per annunciare che il tempo è finito – il danno è stato fatto, ed è irreversibile –, la sensazione è quella di avere a che fare con un album distopico che suona per l’apocalisse a venire. Come dei profeti post-genere, gli Algiers mescolano lo sbando del nostro tempo nello shaker, e spargono fiamme e cenere sulle nostre teste. Non si può sapere come suonerà da qui a dieci anni, ma nel suo incedere caotico, Shook mantiene fede allo spazio di radicale libertà che si tengono stretti gli Algiers.