È in una serata nella quale si verificano eventi all’apparenza impronosticabili – l’Italia non si qualifica ai mondiali di calcio dopo 60 anni e i Soviet Soviet rimangono bloccati a Bologna a causa di una quantomeno inconsueta bufera di neve – che si creano i giusti presupposti in quanto a cornice, per assistere a un concerto degli Algiers. Si è trattata, infatti, di una celebrazione della forza dell’inconciliabile, o, per meglio dire, della semplicità con cui elementi che sulla carta potrebbero apparire come inaccostabili, si siano incastrati lisci a modellare quell’oliata creatura sonora fatta di miele e metallo che sono il quartetto statunitense.
Con la data sold-out da giorni, il basement dell’Astoria è imballato, un gigantesco polmone gonfiatosi a dismisura per permettere a tutti di entrare e ora teso in uno sforzo contenitivo, con i presenti a trattenere il fiato, immersi in un’atmosfera così vibrante che pare di essersi calati all’interno di una cassa armonica. A vederli appena entrati i ragazzi di Atlanta sembrano – e questo è il primo livello di apparente dissonanza – una compagnia di ventura male assortita, con da un lato l’aria stralunata da skater strafatto del batterista Matt Tong e dall’altro il ciuffo lisciato e le pose plastiche del bassista Ryan Mahan, a fare da contraltare. Ma, quando le prime note di Cleveland riecheggiano forti, risulta subito chiaro come i quattro, seppur così diversi, siano ingranaggi insostituibili della stessa macchina, guidati con sicurezza dallo splendido shouting dal timbro soul di Franklin James Fisher. In una continua alternanza fra rabbia e urban poetry che non conosce tregua alcuna, sia quando prevale il distruttivo noise di Animals, che nelle carezze romantiche di Remains, la voce del frontman è il collante ideale tra i diversi elementi sonori, centro gravitazionale della spropositata quantità di catarsi emotiva generata del gruppo.
Non è una musica semplice e lineare, quella degli Algiers, così infarcita di spigoli e di violenti strappi. Lee Tesche, più che un chitarrista, pare uno sciamano intento ad orchestare un rito voodoo, mentre febbricitante si destreggia tra coperchi e scheletri di chitarre appese, percosse con archetti di violino. A mano a mano che la scaletta prosegue e che scorrono brani come Cry of Martyrs o Death March, appare evidente come il genere non sia ascrivibile ad alcun’etichetta preconfezionata e che non esista un manuale d’istruzione per orientarsi all’interno di un sound dall’anima così piacevolmente corrotta. Su uno sfondo di perpetui samples e loops, innescati a turno dalle tastiere di Mahan e Fisher, si alternano scariche di tamburi, schegge hardcore e una ruvidità garage che sa di sporco: ed è questo insieme di singoli vettori sonori, ognuno orientato in direzione diversa, a creare una sorprendente risultante armonica di impetuosa forza, esplosa in canzoni dall’impatto sonico totalizzante. Il secondo strato di distopìa funzionale trova, così, la sua sublimazione nel sincretismo di influenze musicali all’apparenza inconciliabili: un gospel-rock torturato da un’elettronica psichedelica? Un post-punk intriso di tradizione soul? Poco rilevante, il risultato trascende la definizione.
In un’atmosfera satura di emozioni, resa a tratti irreale da un’aura azzurrina che si è adagiata langue sulle teste degli astanti, arriva il momento dell’attesa Walk Like A Panther, pezzo che inizia col campionamento della voce di Fred Hampton, attivista delle Pantere Nere ucciso nel ’69. Non è certo una sorpresa che alle spalle dei quattro campeggi la scritta “All Power To The People” con in mezzo un pugno nero: alla furia musicale che caratterizza le esibizioni degli Algiers corrisponde un pathos altrettanto feroce nel richiamo esplicito alle continue lotte di emancipazione degli afro-americani. L’urlo di denuncia riverberato del pezzo, insieme all’elenco di vittime nere snocciolato nel sample introduttivo di Cleveland, sono forse le due immagini politiche di maggior impatto dell’intero concerto ed hanno il merito di far spalancare gli occhi sul terzo e più profondo livello di sintesi riuscita alla band: il riunificare musica e messaggio, in un ritrovato rapporto di collaborazione che individua nella prima il veicolo ideale per trasportare un (in)comodo passeggero, il secondo. In altre parole, la vera valenza rivoluzionaria della band statunitense è insita nell’aver riassegnato il centro del palcoscenico ai contenuti, elementi relegati sempre più a ruolo di comparse nell’odierno panorama di orgia sovrapproduttiva, e qui finalmente rifatti assurgere a componenti primari.
In un encore che vede Fisher e compagni rientrare, acclamati da un pubblico ormai incendiato, rimane da constatare quanto illuminato sia il sentiero indicato dagli Algiers, quantomeno per il futuro della musica nera. In anni di estrema commistione di generi – si pensi a Death Grips o Ghostpoet – i ragazzi di Atlanta paiono fornire un contributo fondamentale a quell’opera di sradicamento della black music dalla sua etimologia e da quei confini così stretti e mortificanti che da troppo tempo la costringono in aree riservate. Il futuro è forse racchiuso in questa abilità nel fondere gli opposti attraverso un suono: gli slogan delle Pantere nere con lo sballo dell’elettronica, il rumorismo sperimentale con i sermoni gospel, il soul di Detroit e della Motown con il disagio dei Suicide. Intanto, mentre il polmone ci risputa fuori nel freddo di San Salvario, -penso- gli Algiers ci hanno regalato un’ora e un quarto di inappagabile presente.
SETLIST:
Cleveland
Animals
Death March
Walk Like A Panther
Irony. Utility. Pretext.
Remains
Cry of the Martyrs
Old Girl
Blood
Black Eunuch
Time to Go Down Slowly
ENCORE:
Hymn for an Average Man
But She Was Not Flying
The Underside of Power
Fotografie di Alessia Naccarato