“La differenza tra suspense e sorpresa è molto semplice e ne parlo molto spesso. Tuttavia nei film c’è molto spesso confusione tra queste due nozioni. Noi stiamo parlando, c’è forse una bomba sotto questo tavolo e la nostra conversazione è molto normale, non accade niente di speciale e tutt’a un tratto: boom, l’esplosione. Il pubblico è sorpreso, ma prima che lo diventi gli è stata mostrata una scena assolutamente normale, priva di interesse. Ora veniamo al suspense. La bomba è sotto il tavolo e il pubblico lo sa, probabilmente perché ha visto l’anarchico mentre la stava posando. Il pubblico sa che la bomba esploderà all’una e sa che è l’una meno un quarto”
François Truffaut interroga. Hitchcock risponde, ed è molto chiaro. Ha sposato la suspense, e ha affidato il suo cinema a un meccanismo che trascende completamente la costruzione classica in stile sudoku, quella del rompicapo con soluzione all’ultima pagina. Il suo scopo è quello di fornire allo spettatore tutte le informazioni necessarie per struggersi a mano a mano, tramandando l’angoscioso fardello del dominio della verità, e non la sciapa consapevolezza di imbattersi, prima o poi, in un repentino stravolgimento delle circostanze maturate nel corso della pellicola. La gioia e il dolore non si concentrano nel fatidico ribaltone in cui il Poirot di turno addita l’intero vagone dell’Orient Express; no. È come se ciascuno dei potenziali assassini fosse, insieme a chi guarda, perfettamente complice, certamente al corrente di questo tacito legame.
Anche Lynch predilige un apparato filmico distante dal modello dettato dal filone noir del Whodunit (indirizzo tradizionale del romanzo giallo, dall’inglese Who has done it). Emerge, così, un’ulteriore prospettiva nella sbilanciata dialettica platea-regista; l’attenzione si sposta dall’indagine speculativa (che nell’immaginario collettivo è in grado di prodigare risposte cristalline sui nodi narrativi essenziali), per approdare a uno stallo, una ricerca (volutamente) incompiuta inscritta nell’attività di contemplazione e scansione dell’opera.
È questo il momento cruciale del suo lavoro: la ricerca di uno stadio di sospensione drammaturgica, di questo percorso narrativo a struttura doppia, che ricalca l’irreperibilità di una sistemazione logica degli accadimenti sotto il profilo formale.
Per esplodere un pensiero volutamente semplicistico, potremmo racchiudere in due frammenti le due declinazioni sovversive del tradizionale scheletro del romanzo noir. Con A.H. la salvifica quanto logorante risposta abita i sensi e impressiona la memoria del lettore, trascinandolo pedissequamente nel gorgo degli eventi.
Con D.L. abbiamo modo di apprezzare una sorta di singhiozzo, un’esplorazione disorientata che si occupa prima di inoculare nell’astante una smania per le domande, poi di svalutare irriverentemente il valore delle risposte.
Proprio nell’istante in cui Lynch sembra volersi avvicinare al vecchio Alfred, il suo amore per l’irrisolto lo frena, e lo spinge ancora una volta lontano, lontano da tutti, come sempre. (non che ciò costituisca un merito o, viceversa, una causa di additamento).
Il punto di quasi-tangenza è individuabile attraverso la messa in relazione tra Vertigo e Mulholland Drive. Entrambe le pellicole si snodano intorno al momento cardinale della morte di un personaggio, per quanto fittizia o per lo meno (in Lynch) trascendentale.
Possiamo apprezzare come in Vertigo il regista tenda a creare degli spazi di condivisione pura, di contestuale partecipazione nel possesso del patrimonio narrativo, somministrate tanto a Scottie (James Stewart per gli amici), quanto a noi, vittime inermi di questa rivelazione (vedi il lasso di tempo tra la scoperta del diadema e l’effettivo smascheramento della menzogna).
A sinistra un frammento dalla scena finale di Vertigo; di seguito Justin Theroux e Laura Harring in Mulholland Drive
Lynch risulta schivo, parco nel dispensare anche soltanto un paio di sillabe, qualora possano menomare la futura indagine sul complesso monolitico e imperscrutabile che la sua opera vuole rappresentare. In Mulholland Drive abbiamo la dipartita di Rita a scandire i due momenti essenziali del film: il sonno e la veglia. Ma come rimanere a galla quando il sonno e la veglia si mischiano? Rebekah Del Rio perde i sensi sulle note di Llorando, si spiattella come una omelette sul pavimento del Club Silencio, ma lo spettacolo continua; come mai? È lecito pretendere una risposta? È forse così importante, nel novero della struttura filmica, individuare un momento aoristico e conferirvi il valore di inizio, e un ulteriore istante, per individuare una fine? È così cruciale decifrare in termini investigativi la morte di Rita? E soprattutto: quanto sarà contento Lynch di aver, per l’ennesima volta, ingenerato dal nulla la necessità di ricorrere a tanti punti interrogativi nel tentativo di inquadrare i suoi deliri?