L’Aldrin di Johan Harstad: l’arte di non arrivare mai per primi

La mia più grande fissazione da bambino era lo spazio: pianeti, razzi, cosmonauti, Gagarin, il Saturn V, i satelliti di Giove. Chi ha più o meno la mia età ricorderà una raccolta di VHS che usciva puntualmente in edicola, si chiamava L’Universo: Grande Enciclopedia dell’Astronomia. In ogni episodio Piero Angela svelava i misteri cosmici, raccontando le imprese eroiche dei pionieri spaziali. All’epoca non potevo sapere come tutto ciò si incastrasse all’interno delle dinamiche della Guerra Fredda e semplicemente la discesa di Armstrong dalla famosa scaletta mi abbacinava ogni volta. Anche Mattias, proprio come me, rimaneva abbacinato dallo sbarco lunare, ma a lui, a differenza di me, non importava niente di Neil. Lui adorava Aldrin, Buzz Aldrin.

Buzz Aldrin sulla luna

Che ne è stato di te Buzz Aldrin? di Johan Harstad (Edizioni Iperborea, traduzione di Maria Valeria D’Avino) è la storia di Mattias, giardiniere, nato il 20 luglio 1969.

Mattias raffigura il contrario della persona proattiva e ambiziosa, la nemesi di ogni HR e delle attività di personal branding. Mattias ama Buzz Aldrin perché dentro di sé sente che non ci sia niente di male nell’essere i numeri due (o duecento o duemila), a essere solo una piccola operosa rotella di un ingranaggio più grande. A Mattias piace non essere nessuno, piace prendersi cura delle sue piante, piace avere le mani nella terra, piace amare la sua fidanzata di sempre. Mattias rifiuta la società della performance a tutti i costi, rifiuta l’ambizione sfrenata e la continua lotta al primato.

Il suo idillio è però destinato ad andare in frantumi, con le sue adorate piante che smettono improvvisamente di dargli da mangiare. E come si sa, le disgrazie non vengono mai da sole, con l’innescarsi di una serie di piccole e grandi tragedie.

Mattias paga lo scotto del suo modo di essere attraverso un sempre più complicato e talvolta distruttivo rapporto con le persone che lo circondano, e la sua vita si tramuta lentamente in una sabbiolina finissima, di quella che ti sfugge tra le dita in una giornata di fine primavera sulla spiaggia.

La prima parte del libro è una storia di distruzione, ma non ha che vedere con una catastrofe esplosiva, bensì è più simile a una partita di Jenga e a un lento sfilarsi di tasselli sino ad arrivare a quello definitivo, quello che ti fa perdere la partita.

Quindi quale migliore idea se non quella di fuggire dalla ormai inospitale Stavanger ed imbarcarsi verso le Fær Øer per assistere al concerto della band composta dai suoi amici di sempre?

Il piano sembrerebbe perfetto se non fosse che tutto il peso del disastro si abbatte su Mattias in una volta sola, lasciandolo privo di memoria a vagare per gli incredibili paesaggi faroensi in seguito ad un crollo psichico violentissimo.

A raccoglierne le macerie arriva Havstein. Trovato Mattias per strada, Havstein lo porta a casa propria, lo riscalda e gli offre un letto comodo dove il ragazzo si abbandona ad un lungo sonno ristoratore. Svegliatosi e ripresosi dal torpore Mattias ha però una sorpresa: la casa di Havstein non è una casa normale. Non solo la “casa” è incredibilmente grande, ma è anche piuttosto abitata. Anzi, forse non è una casa.

Chi sono tutte queste persone? Sono persone rotte. Havstein è un aggiustatore di persone rotte. Mattias è una persona rotta.

Da qui in poi si apre un libro nuovo, un libro diverso. Mattias indaga sulle proprie fratture e in una sorta di “sindrome da tenente Drogo” fa delle Fær Øer la propria Fortezza Bastiani.

L’opera di ricostruzione di Mattias inizia ad occupare sempre più spazio insieme a quelli che sono i suoi legami con gli altri inquilini, che come lui cercano di raccogliere i propri frammenti.

Piano piano ci si addentra nelle vite degli ospiti della “casa” e le loro storie trasformano il libro in un ventaglio. Diventa impossibile non affezionarsi ad ognuna di queste persone spezzate, mentre tutti i legami e i sentimenti che emergono erompono dolci e delicati, contrastando col loro calore il freddo atmosferico che le isole impongono.

Mentre in sottofondo scorre la discografia dei The Cardigans, con una Nina Persson non più sfrecciante per bollenti deserti californiani, ma per innevate strade insulari, Mattias oltre che ospite della “casa” diventa ospite dell’intera isola.

Harstad ci offre un ritratto delle Fær Øer attraverso piccoli personaggi e minuscole attività quotidiane immergendo il lettore in un mondo lontano, in quello che può essere un piccolo elogio della “vita lenta”, prima che di questo concetto facessero man bassa influencer e venditori di pacchetti turistici, e le isole ed il loro paesaggio diventano coprotagonisti del romanzo e non semplice sfondo.

Fær Øer

Ad una prima parte di “distruzione” segue quindi la parte del “riassemblaggio”, dove Mattias acquisisce nuove forme sia grazie a suoi nuovi legami, che prenderanno nel corso del romanzo forme sempre diverse, sia grazie alle consapevolezze che giungeranno dalla scoperta dei fatti legati a quella notte segreta, quella notte che il ragazzo non è più in grado di ricordare. Tutta questa opera di fragile artigianato dell’animo è anch’essa destinata infine a fluire all’interno di qualcosa di nuovo, un ultimo fondamentale tassello: il viaggio.

Il viaggio è un tema che abita in maniera sottile tutto quanto il romanzo e si fa tanto esplicito nel momento della partenza dalla Norvegia alle Fær Øer quanto come momento di riappropriazione di quella che è una nuova identità di sé. Il libro nei suoi tratti conclusivi quasi si riavvolge e le traversate dei Mari del Nord acquisiscono significati bidirezionali e sempre nuovi, in un formato malleabile che permette al lettore di caricare il testo di emozioni individuali e di rispecchiarsi in maniera stratificata. Lo stile di Harstad in tutto questo è estremamente lieve, come a rispecchiare i tratti contenutistici del suo stesso romanzo per cui in fondo less is better.

Al termine di questo viaggio a partire dagli abissi marini, passando per del denso e tangibile sangue, sino allo spazio stellare profondo, Che ne è stato di te, Buzz Aldrin? offre come intermediario proprio quello che allo stesso tempo ci suona più familiare e più lontano: l’essere umano nella sua fragilità.

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