La mia ultima volta a Spazio211 risale al Todays Festival, dove nel primo dei tre giorni del programma, ci siamo fatti incantare da una splendida PJ Harvey accompagnata da una band di fuoriclasse capitanata dall’onnipresente John Parish.
Il live di martedì 31 Ottobre non solo mi riporta nello stesso luogo, sebbene “strizzati” nella versione invernale del club indoor, ma chiude un ideale cerchio la cui circonferenza è stata tracciata dallo stesso Parish. Sul palco, Aldous Harding, cantautrice folk neozelandese, troppo stretta nei limiti tracciati da questa sommaria definizione, che ha registrato l’ultimo album Party proprio con il braccio destro della Harvey. L’occasione è ghiotta, la Harding ha conquistato un posto d’onore tra i miei personali must see a partire dal suo album d’esordio, alimentando la curiosità su questo particolare personaggio performance dopo performance, culminata con la sua apparizione in Italia all’ultima edizione di Ypsigrock. Insieme ad Alessia dietro la sua fedele macchina fotografica, decidiamo di concederci proprio nella notte di Halloween, un gustoso treat.
Gli orari normalmente dilatati del locale ce la fanno “prendere comoda” anche per quello che deve essere stato l’unico live puntuale della storia di Spazio211, tanto che al nostro arrivo troviamo H Hawkline già sul palco, per il suo non proprio coinvolgente open act. Lo rivedremo poco dopo ad accompagnare la Harding al basso. Il falsetto del giovane dai capelli rossi purtroppo mi annoia dopo appena qualche brano, mentre si destreggia tra la sua chitarra e una Roland suonata in maniera piuttosto elementare. Lui si giustifica “Normalmente sono accompagnato dalla mia band, e insieme suoniamo come i BeeGees. Da solo, non sono che un uomo triste che canta canzoni tristi”. Ecco.
Sale sul piccolo palco senza dire una parola, si siede sullo sgabello alto di legno davanti al microfono. L’immancabile Levi’s, maglia e Godin con la tracolla cortissima, tutto bianco. Aldous Harding, nome d’arte di Hanna Harding, fa un incantesimo ai presenti in sala che da quel momento non emettono più verbo, ammaliati da quella presenza che per tutta l’ora abbondante della durata del suo live, si sposterà sempre in pochissimi metri quadrati; talvolta siede, abbracciando la candida chitarra dietro la quale sembra voler cercare rifugio, talvolta si alza, ma restando sempre in una piccola comfort zone. Ci ammalia con le sfumature della sua voce, indefinibile, così riconoscibile eppure sempre così diversa. Nasale, capace di toccare corde bassissime e poi improvvisamente alta, e forte. Ci rapisce con il trasporto con cui esegue i suoi brani, come se nel momento esatto in cui inizia ad arpeggiare venisse istantaneamente portata altrove, quasi posseduta dalla sua stessa interpretazione. Guarda verso il pubblico, ma senza vedere nessuno, il suo viso si contorce in espressioni talvolta buffe con cui modula la sua voce come fosse anch’essa uno strumento. Un’alchimia perfettamente bilanciata di delicatezza, quasi timidezza alle volte, e travolgente passione interpretativa.
Disinteressandosi completamente dell’omonimo album d’esordio, insieme a due inediti e la splendida Elation, uscita come colonna sonora di un episodio della serie culto Black Mirror, Harding esegue per intero il secondo disco, partendo dall’ultima traccia Swell Does The Skull, lasciandoci se non proprio l’amaro, quanto mento l’agrodolce in bocca quando nell’encore decide di non performare il singolo Horizon, infastidita dal vociare di individui mascherati, arrivati proprio nel momento più alto, tra l’altro non per il concerto ma per il successivo dj set per la festa di Halloween.
Riesce a strappare uno dei più lunghi applausi di cui abbia memoria, forse per convincerla ad uscire ancora e regalarci quell’ultima perla, o forse semplicemente per ringraziarla sinceramente per questa serata di rara bellezza.
Fotografie di Alessia Naccarato