Non molto tempo fa entrai in un ufficio completamente ricoperto di post it. Una piccola lavagna di sughero era stata presa d’assalto da quei pezzi di carta dal colore giallo tenue che mi venne facile comprendere il punto da cui tutto aveva origine. La parete adiacente alla scrivania era sommersa di quadrati adesivi, per non parlare dei bordi dello schermo del computer. Mentre mi accomodavo nella sedia dal tessuto azzurro, cercai di immaginare la forza che guidava l’autore di tutti quegli appunti scritti a mano. Ero curioso di capire cosa diavolo ci fosse scritto in ognuno di quei pezzi di vita, ma oltre a nomi, numeri di telefono e appuntamenti fissati non c’era granché di interessante.
Quell’invasione spropositata di post it altro non era che la materializzazione del ricordo, o meglio ancora della capacità di ricordare. L’isterismo dovuto al panico da prestazione dava vita ad un estenuante attività di annotazione che andava ben oltre i luoghi comuni. Quei quadrati gialli erano lo scoglio a cui aggrapparsi nel momento della tempesta, un appiglio che avrebbe assicurato la propria salvezza nei momenti più difficili. L’ossessiva necessità di riportare ogni minimo dato raccolto nell’arco della giornata andava a riempire lo scaffale stracolmo della mente, consentendo al suo autore la possibilità di venirne fuori senza riportare ingenti danni.
L’immagine di quell’ufficio ricoperto di appunti si è ripresentata nella mia mente quando ho ascoltato per la prima volta Schmilco, ultimo album in studio dei Wilco. Sono sincero quando dico che negli ultimi giorni l’ho ascoltato all’incirca una dozzina di volte. Sì, forse ho perso il conto, consapevole del fil rouge che collega i brani tra loro e che ho intravisto sin dal primo ascolto. Insieme a Skeleton Tree di Nick Cave e i suoi Bad Seeds è l’album che più sto ascoltando, forse anche di più di quest’ultimo citato. Da un lato abbiamo visto l’altissima celebrazione di un lutto attraverso la musica, dall’altro invece la voglia di tenere fermo il passato, ovvero il ricordo di un tempo che – tra l’infanzia e l’adolescenza – smaschera le origini di qualsiasi persona sulla faccia della Terra. Nick Cave ha perso un figlio e ha scelto di cantare il suo dolore in otto brani che assumono il ruolo di perfetti stratagemmi per alleggerire il peso del vuoto – o per cercare di dare un significato a quel vuoto. Jeff Tweedy invece ha optato per un viaggio a ritroso per i meandri dei suoi ricordi, sviscerandoli in modo da creare un unico e lungo brano dalla durata di 36 minuti e 22 secondi.
Le prime critiche che sono emerse al disco dei Wilco sono state quasi identiche tra loro. Nell’arco di pochi giorni dalla sua uscita è stato fatto notare come nell’album non ci fosse nulla di talmente scottante da segnare le menti degli ascoltatori più fedeli alla formazione di Chicago. Schmilco, registrato nello stesso periodo di Star Wars (2015) – album dalle sonorità più marcatamente rock –, ha segnato un ritorno alla realtà folk americana della band senza sorvolare sulle diverse contaminazioni, come in Locator e We Aren’t the World (Safety Girl).
Tutti si aspettavano un Nick Cave duro come la pietra, narratore come i migliori cantautori e maledetto come lo sanno essere solo i dannati. Nessuno invece si aspettava Tweedy e i suoi Wilco affranti dal passato, abbandonati alla loro voglia di ripercorre il tempo e rintanati nell’esclusività del piacere provocato dall’evento manifesto del ricordo. La voce spezzata e rauca del primo in Girl in Amber e la grinta scanzonata del secondo in If I Ever Was a Child. La disperazione e la malinconia si fronteggiano, evitando come la peste la possibilità di scendere a patti. È in questo caso che viene elargita la superficialità dei Wilco con il loro ultimo album. L’effetto post it scelto da Tweedy per tappezzare le pareti di ogni singolo brano non è riuscito ad entusiasmare il pubblico.
Tra le tante cose, ho atteso l’arrivo di questo mese di settembre con un sentimento misto ad ansia e curiosità perché sapevo che oltre ai Wilco e Nick Cave, avrei trovato in fondo alla strada le nuove uscite firmate Okkervil River e Bon Iver – di quest’ultima, come ben sapete, siamo tutti ancora in attesa. Nel frattempo ho avuto tutto il tempo per ascoltare gli albumi e farmi un’idea di quello che passava nelle mie orecchie. Al contrario di molti, mi sono ritrovato ad apprezzare più Schmilco che Skeleton Tree. Pur restando lontano dalla valutazione della tecnica e dei contenuti, quello che mi ha catturato è stata l’idea di fondo che sorregge tutto l’impianto dell’ultimo album dei Wilco. Ho visto in Schmilco, anzi, lo vedo tutt’ora, lo stesso principio narrativo che possiamo riscontrare in uno dei qualsiasi racconti di Richard Ford contenuti nella sua raccolta Rock Springs (Feltrinelli, trad. di Vincenzo Mantovani). L’abitudine dei personaggi, il loro perseverare nella ricerca e la presenza di tematiche che indagano il quotidiano fanno della raccolta di Ford uno dei capisaldi della letteratura americana che consente di guardare la semplicità dei disastri emotivi tra famigliari e persone comuni per poi narrarla con tutta la forza di cui solo alcuni scrittori dispongono.
Nick Cave ha preso il suo Skeleton Tree e l’ha vestito di nero, al pari di un lungo e profondo lamento rothiano che emerge dal conflitto col nemico e nella perdita di uno dei tasselli più importanti che compongono la propria vita. Potremmo far risalire questo aspetto al sempre citato principio dell’artista colmo e esausto di dolore, fortificato e alimentato dal dolore. Una nave che è partita per un viaggio per il mondo nel pieno di un tempesta sentimentale e atmosferica, tanto da rendere il vizio del suo autore un timone che gira e rigira senza alcun motivo apparente. Le vele gonfiate dal caos hanno lasciato il posto a vele gonfiate dalla cautela e dall’assimilazione del vuoto. La roccia è tornata a splendere, questa volta ancora più resistente di prima. A mandarla in frantumi ci ha pensato la vita che non smettere di riservare sorprese.
Ad accomunare i personaggi di Richard Ford c’è lo stesso nastro con cui sono tenuti insieme i brani di Schmilco, gli stessi post it che ha scelto di usare Jeff Tweedy durante la scrittura dei testi. Personaggi in lotta con il proprio passato e che cercano in tutti i modi di reagire senza mai prendere le distanze da quello che sono stati. Il viaggio in auto è segnato dalla grinta della ricerca e non dalla svolta definitiva. Sopperire ai propri errori fa di loro soggetti provvisti di una forza disumana nel tirare avanti, ma allo stesso tempo fragili nella quotidianità. La malinconia e la tristezza emergono insieme dalla polvere che le parole di Ford alzano da terra, la stessa che riescono ad alzare i Wilco con i loro brani in quest’ultimo album. È la reminiscenza del passato a condurre entrambe le narrazioni suoi binari che portano dritti alla prima stazione ferroviaria disponibile.
La voglia di tenere tutto a mente nutre il desiderio di diffondere i ricordi nella stanza che più viviamo. Libri, dischi e stupidaggini varie si collocano teneramente nel disordine che ci compone e che ci contraddistingue in mezzo a tanti. A volte mi percepisco in quello che ho intorno, a volte ne prendo le distanze per ritrovarmi nei momenti più duri. L’ufficio ricoperto di post it lo ricordo ancora non per tutto quel giallo che si disperdeva nell’ambiente, ma per la possibilità di aver visto i ricordi di una persona diversa da me resi pubblici, facilmente visibili ad occhi estranei. Erano solo numeri di telefono e appuntamenti fissati, eppure l’idea di spogliare la propria mente e riversare gli abiti sopra un muro era davvero fantastica. Il semplice pensare a questo punto potrebbe voler dire che mettersi in gioco è da tutti, oppure che si tratta di una tipica pratica esercitata dai più deboli.
In questa eterna lotta tra complessità e superficialità, tra pesante e leggero, forse Tweedy ha fatto la sua scelta di non sopperire alle aspettative per riuscire a stravolgerle definitivamente. Al decimo album in studio molti scelgono di mantenersi sul sicuro e incassare il parere favorevole dei fan e della critica. I Wilco hanno invece deciso di percorrere un’altra strada, una strada che riparte dalle origini e che scava in fondo fino ad arrivare alle fondamenta del loro stile inconfondibile. A Nick Cave abbiamo lasciato la massima libertà di sfogo del dolore – c’era da aspettarselo –, a Jeff Tweedy abbiamo riservato la malinconia.