“Una sera mi sentii esaurito, mi veniva meno l’attenzione; dunque lo salutai e andai a dormire. La mattina dopo, con mio grande stupore, lo ritrovai esattamente dov’era, non s’era mai mosso dalla sua scrivania. Gli dissi: Ma non ti sei neanche svestito? No, rispose, mi stavano appresso le parole.”
Sono le parole rilasciate in un’intervista a Il Messaggero da Alberto Rollo, in riferimento all’autore di Sostiene Pereira Antonio Tabucchi. Rollo è oggi una delle figure più importanti del mondo dell’editoria italiana. Alberto Rollo è stato direttore letterario della casa editrice Feltrinelli, per la quale ha lavorato più di vent’anni, e per un anno ha diretto la casa editrice Baldini & Castoldi. È stato condirettore della rivista Linea d’Ombra e ha scritto saggi per riviste letterarie come “Belfagor”, “Quaderni Piacentini”, “Letteratura e letterature”, “Tirature”. Oggi è consulente per la narrativa in Mondadori.
Dopo il successo del romanzo Un’educazione milanese (Manni, 2016), Rollo ha pubblicato un monologo in versi, L’ultimo turno di guardia (Manni), il racconto di un uomo confinato in un tempo sospeso, chiuso in cima a una torre che è insieme carcere, vedetta e nosocomio. Una riflessione lucida sul valore della memoria, sulla sospensione della condizione umana, sull’incertezza che ne deriva. E il vuoto a cui ognuno sembra destinato, come l’io poetico che vive lontano dal mondo reale, immerso in quello della memoria, la sua agonia.
Il poemetto è una delle forme letterarie su cui è stata fondata la nostra letteratura, che qui si fonde con quella del monologo. Da dove nasce l’idea e la necessità di raccontare in versi? “L’ultimo turno di guardia” coincide con un periodo specifico della Sua vita?
Questa scelta risale a tanti anni fa e coincide con l’urgenza di rispondere al vuoto di tempo che fa seguito allo spegnersi di quella che fino alla fine degli anni ’80 abbiamo chiamato Storia. Sentivo il bisogno di trovare una voce che percepisse e quindi raccontasse quello stato di immobilità. Quella voce ha cercato le forme espressive del teatro. Anche se in realtà L’ultimo turno di guardia non chiede di essere rappresentato. Ciononostante insieme al personaggio che dice io appare un deuteragonista, una presenza silenziosa. Se il protagonista nella sua immensa vecchiaia è il testimone di questo tempo immobile, l’altro è il carceriere, la spia, l’infermiere, l’indifferente e muto testimone del signore “malato di tempo”.
La sospensione temporale è uno degli elementi che emerge più nitidamente, che paralizza e dà continuità al testo, attraverso una dilatazione. “Eterno sciamare”, “di’ che ci sono e non finirò”, la vita diventa “una lunga malattia”. L’uomo appare quindi immobile, in una condizione liminare, in cui la memoria concede un sollievo effimero. Qual è la soluzione per sfuggire all’agonia dei tempi, a quest’eterno presente beckettiano?
Beckett è l’innominato di questo testo, presente e assente al contempo. Ma siamo in una percezione diversa del tempo. Come tutte le attese, uno scioglimento vero non è dato. Cosa fa il degente in attesa? E cosa possiamo fare noi? Possiamo imparare a guardare. Non capire, capire può rivelarsi una trappola mortale, ma quello dello spettatore è un approccio utile e necessario. Saper guardare è fondamentale, tendiamo a saltare o minimizzare questo passaggio. Il protagonista del poemetto è soprattutto spettatore – della sua esistenza, ma anche della distesa metropolitana che i vetri della cupola lasciano intravvedere.
“Uomini dell’avvenire sono sobrio.
Non ricordatevi di me. I re son morti,
son morti i moribondi che han promesso
altra signoria. Più dura
questa lunga malattia più vi sottrae,
meravigliose fantasie, futuro.
Vi cercherete ciechi sopra il muro,
come timidi gechi pattugliando
il giorno e i suoi improvvisi
nidi di ombre.”
da “L’ultimo turno di guardia”, Manni, 2020
La narrazione è scandita da cinque sequenze, a cui corrispondono sei citazioni (una iniziale e le altre per ogni sequenza). Le citazioni anticipano e mettono in guardia il lettore, sono chiavi di lettura importanti. Si tratta di citazioni di autori molto differenti: Eschilo, Brecht, Wagner, Auden, Dylan, Racine. Qual è il filo conduttore che collega questi tasselli che insieme danno forma al puzzle?
Una correlazione c’è ed è evidente. Il teatro, lo spettacolo, la scena. Sono tutti autori, a esclusione di Bob Dylan, che rientrano nel campo semantico del teatro. Tutte queste epigrafi esprimono una diversa percezione della catastrofe e si confrontano con l’idea dell’attesa, testimoniata dalla figura della sentinella in attesa di qualcosa che non accade.
Come spesso succede in poesia, l’io include un tu necessario, che compatisce o finge di compatire lo stato del protagonista, come quello di tutti gli uomini, in un processo che va dal particolare all’universale. “Nemico”, “casto compagno” e vittima, questa presenza ostile e insieme rassicurante, cioè l’interlocutore, è solo una creazione dell’io poetico (“spia della mia malattia”) o è il testimone necessario di quest’umanità agonizzante?
L’interlocutore non può sfuggire a nessun epiteto o definizione, dalla più sprezzante alla più generosa. È quel tu a cui universalmente l’io si rivolge, continua e si ostina a rivolgersi. La funzione del personaggio è proprio quella di sfidare il silenzio, di ricercare uno scontro con questa realtà opprimente. L’interlocutore non cambia faccia e ruolo, ma continua a modellarsi sulle esigenze della condizione umana, quella dello stare, del durare, dell’essere qui e ora. Descrive un bisogno universale.
“Ti prego, padre, tu che mi hai voluto,
scaccia nebbie, memorie, caccia te
da me. O abbracciami definitivamente.
Son dove il seme asciuga, ed anche il sangue
lascia letti deserti. Son più vecchio
di te che pur sei stato vecchio.
Sono il tuo specchio e lo specchio che ti nega.”
da “L’ultimo turno di guardia”, Manni, 2020
Alla fine del 2016, Lei esordisce con Un’educazione milanese (Manni), il romanzo che racconta la sua formazione, la Milano proletaria del Dopoguerra, che poi entrerà in cinquina al premio Strega nel 2017. Una città e una generazione. Come definirebbe la Sua esperienza da esordiente, dopo aver vissuto una vita nel mondo dell’editoria?
Un’esperienza impressionante, travolgente. Il vero passo importante è stato pubblicare il libro. Ho ubbidito a un’urgenza, quella di rendere ragione del mio rapporto con la città, con la Milano metropolitana. Non è un’autobiografia, o meglio è un racconto autobiografico fondato su un drastico lavoro di selezione. Alla memoria viene imposto di rispondere a domande circostanziate. Riguardo la mia partecipazione al Premio Strega, non ho mai pensato di poter vincere. Ho partecipato con entusiasmo per far sì che si affermasse il marchio di Manni, piccola casa editrice, seria e di prestigio. Quella sì, è stata una grande soddisfazione.
In un articolo ho scritto recentemente che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul romanzo. La tendenza nel nostro Paese è non giudicare ugualmente tutte le forme di scrittura, come la poesia. Il Premio Pulitzer ogni anno viene assegnato ugualmente per poesia, narrativa, drammaturgia, musica e non solo, come categorie separate, tutte con la stessa importanza. In Italia oggi manca un premio, non dico della statura del Nobel, ma che dia risalto ed equipari la poesia alla forma romanzo. Questo può essere un limite per la nostra letteratura?
La nostra storia letteraria è così ricca di figure decisive per la poesia nella seconda metà del novecento. Fortini, Sereni, Giudici, Zanzotto. Anche la nostra migliore narrativa è passata da una formazione di tipo poetico: penso all’influenza che ha avuto Eugenio Montale. Antonio Tabucchi conosceva il peso della poesia nella sua avventura in prosa, nei racconti come nei romanzi. Oggi la poesia sta progressivamente riacquistando un peso nel mondo dell’editoria: basti pensare alla recente acquisizione del marchio Crocetti da parte di Feltrinelli. Lo Specchio di Mondadori e la Bianca di Einaudi esercitano tutt’oggi un’influenza importante. Sarebbe tuttavia fondamentale che si creasse una generosa triangolazione fra editoria, accademia, critica militante: solo così si potrebbe pensare a una convergenza forte tale da destare una più netta attenzione nei confronti dell’esperienza poetica. Prima di pensare a istituire un nuovo premio, è bene creare le premesse favorevoli alla scrittura. Auspico una rinascita della poesia e questa ripresa deve partire proprio dagli autori, dalle voci emergenti.
Penso che Lei e Rosella Postorino siate attualmente i due scrittori, appartenenti al mondo dell’editoria, i cui romanzi hanno avuto più successo. Come nel caso dei critici che assumono le vesti dello scrittore, penso che il connubio sia efficace, che avvenga un processo di creolizzazione tra la propria formazione culturale, umana e lavorativa e l’esperienza della scrittura. Lei come riesce a far convivere le due anime? E pensa in futuro di tornare a scrivere un romanzo?
Le due anime convivono, non si sovrappongono. E credo che la cosa valga per una scrittrice editor come Postorino. Lavorare in editoria e scrivere sono esperienze molto diverse. L’unica vera fonte di immaginazione è semmai la mia esperienza di lettore, la fermentazione delle storie nella mia officina interiore. Non è cosa di oggi. Basterebbe l’esempio preclaro di Vittorio Sereni, poeta e funzionario editoriale.
Lei è entrato in contatto con i più importanti autori della letteratura contemporanea, italiana e non. Catozzella, Sorrentino, Baricco, Agnello Hornby, Tabucchi. È stato anche traduttore di autori internazionali come Coe e Capote. Cosa rimane a un editor del lavoro svolto con questi grandi autori? E cosa Le dà oggi lo stimolo, dopo anni di successi pubblicati, per continuare a investire sulla letteratura?
Lo stimolo viene giorno per giorno. A me piace lavorare con le voci più giovani, che forniscono uno stimolo prezioso. Ogni volta che lavoro a un’opera devo confrontarmi con l’autore e si stabilisce un nesso tra l’ascolto e la lettura. Il mio ruolo è fondato sull’ascolto. Ascolto e non suggerimento, è importante distinguere. Molto spesso l’editor è stato accusato di essere invasivo, ma questa è una leggenda. Il lavoro dell’editor consiste nella collaborazione con l’autore, nello stare fianco a fianco, nell’essere un complice destinato a scomparire.
In un’intervista su Il Messaggero, Lei ha dichiarato “agli autori che dicono di avere scritto un libro, io ripeto sempre: no, tu non hai scritto un libro. Hai scritto un romanzo, un saggio, un reportage. Noi editori facciamo i libri.” e poi ha aggiunto che “l’editor è un complice”. Senza l’editor, non si può parlare di libro e questa mi pare una giusta replica a tutti quelli che credono di poter saltare il passaggio dalla casa editrice, autopubblicandosi, o a coloro che affidano la pubblicazione dei propri testi a case editrici a pagamento senza alcun filtro di editing. Lei che ne pensa di questi fenomeni sempre più diffusi e che, a mio parere, danneggiano l’immagine dell’editoria con la E maiuscola?
Penso che l’editore sia un grande mediatore. Bisogna traghettare un autore e un’opera da dentro a fuori, la mediazione è necessaria. Ribadisco che un’opera diventa libro solo attraverso un editore. L’editoria a pagamento danneggia solo gli autori che cadono nella trappola, ma chi legge sa distinguere un libro senza cura né editing. Quello dell’editoria a pagamento è un fenomeno pericoloso che sicuramente danneggia, ma fortunatamente è contenuto e isolato.
Com’è cambiato (se è cambiato) il ruolo dell’editor da quando ha cominciato a oggi? E in cosa consiste oggi il Suo lavoro come consulente per la narrativa di Mondadori?
Ora sono consulente ma continuo a svolgere il lavoro che ho sempre fatto. Cerco autori, lavoro sui testi. Mi piace sentire le idee che prendono forma nell’immaginazione di chi scriva, e mi piace aver cura di tutte le fasi che portano dalla delineazione di una storia alla voce che la racconta. Quarant’anni fa in Italia la parola editor non esisteva, l’abbiamo acquisita dall’editoria americana, ma in verità nella figura del redattore c’è sempre stata ance quella dell’editor. Un cambiamento in realtà c’è stato, a favore di una certa istituzionalizzazione, di una certa modularità di funzioni. Non a caso l’editor è ora una figura che assembla in sé la responsabilità di acquisire nuovi autori e quella di governare il lavoro sui testi. Quando questa seconda identità si svincola dalla prima si parla di desk editor.
Guardiamo al futuro. A quali progetti sta lavorando adesso di prossima pubblicazione?
Sto lavorando al nuovo romanzo di Giuseppe Catozzella, già finalista al Premio Strega nel 2014 con “Non dirmi che hai paura”. Si chiamerà Italiana e uscirà a febbraio. La protagonista è una donna, ed è ambientato nel sud, quando l’unità della nazione fa esplodere conflitti sociali che si traducono in forme di ribellione come quella del brigantaggio. La protagonista di Italiana è una bellissima figura di donna combattente. Una donna che vive nei boschi, che sente dalla sua parte la natura, e lotta per una nuova umanità più giusta.