Orano si affaccia sul mare d’Algeria, poco distante la costa spagnola. Ha visto passare tutto e tutti: ottomani, spagnoli, francesi; e poi ancora guerre, sopite rivolte – e persino la peste. «Mentre i nostri concittadini cercavano di abituarsi a quel subitaneo esilio, la peste metteva guardie alle porte e deviava le navi che facevano rotta su Orano» – così scriveva il franco-algerino Albert Camus in uno dei suoi romanzi più belli e avvilenti. Orano fu una delle città protagoniste delle battaglie di indipendenza che portarono alla decolonizzazione dell’Algeria dalla Francia – sì, quel periodo della storia su cui recentemente è tornato Macron, lanciando un appello di scuse al paese nordafricano a nome di tutta la Francia. Il mare su cui affaccia la città algerina è quello che conosciamo come Mediterraneo. Per quello stesso mare è arrivato in Europa un toccasana come il caffè, scoperto per caso in terre che oggi sono conosciute come Etiopia o Yemen. Da laggiù, dove il chicco tostato divenne polvere, e si sciolse con l’acqua al ritmo di diecimila cezve, raggiunge destinazioni più a Nord come Venezia, Vienna, Parigi – facendo la fortuna dei caffè letterari e dei filosofi esistenzialisti. «Dovrei uccidermi o prendere una tazza di caffè?», celebre la domanda che ci rivolge beffardamente Albert Camus, consapevole che non esistano alternative nel mondo assurdo.
Per noi cresciuti nella parte sud-occidentale dell’Italia, il caffè è sempre stato quello della moka. Nei bar lo tiravamo su in fretta, ancora appoggiati al bancone; e se qualche nord-europeo ci faceva notare come fosse stravagante l’usanza di andar nei bar frettolosamente a consumare un micro-caffè al volo, rispondevamo con sufficienza che non potevano capire. Ci consideravamo i detentori di una mitologica e arcaica cultura del caffè, anche se quel mare aperto ci contraddiceva. Avremmo dovuto immaginare – quantomeno sospettare – che quel mare era stato portatore di incontri e destinazioni verso l’ignoto: i greci sarebbero arrivati nel Sud dell’Italia attraversandolo, i romani ci avrebbero fondato un impero, i cristiani un progetto di conversione delle anime – e il caffè, pure il caffè sarebbe arrivato da lì. Crociate, guerre, migrazioni: a guardarla la storia da vicino, quanto male ci siamo fatti. E che mal di testa.
Nazionalismo e infanzia
Se il nazionalismo è un’esperienza storica brevissima, l’infanzia è indimenticabile. Peccato che spesso in proposito si sia fatta una certa confusione. L’opera di Albert Camus è pervasa da una lunga nostalgia dell’infanzia: i suoi sapori e i suoi odori si confondono alla ricerca di un tempo perduto e mitico. Da Parigi, Camus evoca il mare, l’estate ad Algeri e i colori di Tipasa. La figlia Catherine, che ha poca memoria di quel padre strappato alla vita così giovane, racconta così Albert: «aveva nostalgia del mare»: o della città senza limiti che si contempla dentro l’ipotesi del mare. Essere un pied-noirs (figlio di padre francese e madre spagnola, emigrati in Algeria) lo pose sempre al limite di una condizione da eterno sradicato: così non sorprende che Camus sia lo straniero per eccellenza, sospeso tra due mondi in attesa di un’idea di patria. Se la storia è assurda, con tutti i suoi strazi, non resta che cercare quella patria ideale nell’infanzia, e nell’umanità – che da Tipasa a Lourmarin è uguale, giù fino all’estremo grido della coscienza greca, all’uomo puro.
Non è facile essere un uomo, ma è peggio essere un uomo puro.
Il pensiero meridiano, con la nostalgia di una bellezza esiliata dopo il mondo greco (- a questo proposito ci si potrebbe perdere tra le pagine de L’esilio di Elena), l’odore del mare (che ritrovò nel sud della Francia), erano per Camus un balsamo necessario per eliminare quel sentimento sradicato del mondo assurdo. Assurda era la peste che infestava la storia, che da Orano si muoveva verso la Germania nazista e tutti i suoi orrori; quella storia che si sarebbe sempre ripetuta ancora con le sue tragedie e la sua aria malsana. Assurda la fatale dimenticanza che eppur si muore, e sarebbe sufficiente ricordarlo a volte per non essere accecati da ideologie e vagiti nazionalisti. Assurdo pure che, quest’uomo umano, abbia trovato di fronte un muro di rifiuti: non fu mai abbastanza algerino per gli algerini, mai abbastanza francese per i francesi, mai abbastanza comunista per la compagnia di Sartre, mai abbastanza anti-colonialista per i movimenti francesi a supporto del FLN algerino.
Sognava un’Algeria dove francesi, berberi, musulmani, italiani (- chiunque vi fosse migrato), potessero convivere: una società aperta. Sognava per l’Algeria il futuro di un mare. Algeri era mediterranea, un faro nella notte dentro l’odissea avvilita in cui siamo tutti compromessi: il pensiero meridiano avrebbe potuto salvarla; dall’oscurantismo religioso, dalle ideologie accecanti, dalla peste, dal nazionalismo. Non fu capito, Albert Camus. Per Edward Said, autore di Orientalismo, su Camus agiva un misterioso “inconscio coloniale” di natura occidentale. Said provò sempre a sfatare quello che era lo stereotipo di un Oriente mistico e magico, in fondo separato; e nella sua black list di scrittori vittime dell’inconscio coloniale, Camus è in buona compagnia insieme a nomi come Conrad o Hemingway. Eppure il tentativo di Camus non fu mai quello di separare: semmai aveva sempre conservato l’ambizione di unire, e ri-unire le comunità sulla base dell’esperienza dell’essere umani, alla larga da ogni retorica politica o costruita.
La nostra sola giustificazione, se ne abbiamo una,
è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo.
L’uomo in rivolta, che Camus ci spinge dolorosamente a diventare, trova la sua verità oltre i precetti impartiti dal mero processo storico: si riconcilia con la natura, con i colori e i paesaggi. Anche se il destino inevitabile di ogni uomo è quello della morte (l’evento più assurdo dopo la vita), non c’è posto per la rassegnazione: il cielo sopra di noi è più eterno di quanto non sia l’uomo; l’arte e il sentimento di solidarietà umana pure – e questo ci salverà. Ma la solidarietà non deve essere cieca: la lezione di Camus è denunciare ogni orrore storico, stare sempre dalla parte di chi non può avere voce, dei deboli, dei diseredati. Fu uno dei pochi a denunciare l’orrore delle bombe su Hiroshima e Nagasaki e quello del comunismo sovietico, in un clima intellettuale medio piuttosto uniforme in proposito. Mai chiudere gli occhi di fronte alla storia, anche quando non conviene.
Lingua, patria, esilio
Guardate dove siamo finiti, sembra sussurrarci Camus nelle sue pagine: vittime sacrificali sull’altare delle ideologie e delle bandiere nazionali. Quella purezza dei popoli a cui vi appellate, non esiste. La verità è nel mare: quel mare da dove tutti veniamo e siamo risucchiati a turno, coi nostri strazi – umani, e le nostre brevi felicità e libertà (da difendere). Un mare che può arrivare a fagocitare – talvolta – fino a far sentire che non c’è più terra sotto i nostri piedi; eppure il concetto di patria è molto più aperto di quanto non sembrerebbe suggerire il misticismo delle barriere nazionali inventate dall’uomo. «Sì, ho una patria: la lingua francese», scrisse Camus nei suoi taccuini.
Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo / Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore dei nobili ingegni / Se sono stato cacciato da un Paradiso, come posso darne notizia? (Ibn Hamdis)
Seguendo le rotte del Mar Mediterraneo ci perderemo in una babele di lingue e dialetti, tra le molteplici influenze e movimenti delle parole: così in Sicilia – per esempio – troveremo derivazioni dell’arabo, e a Napoli assonanze con il francese. Della dominazione araba in Sicilia restano bellissime tracce, come le parole del poeta arabo-siciliano Ibn Hamdis. Quando arrivarono i normanni, Hamdis dovette lasciare la terra che amava così tanto: si portò appresso tutto il tormento dell’esule sradicato, e versi strazianti dedicati alla Sicilia. A un’idea di patria, all’infanzia. Per sua fortuna Hamdis aveva l’arabo come patria; poeti e scrittori sradicati (e meno fortunati) invece hanno dovuto scendere a compromessi con una nuova lingua da scrivere. Altri, come Roberto Bolaño, avevano il lusso di portare la patria-lingua con sé in giro per il mondo: così dal Cile lui se ne andava in Messico, e in Spagna, senza perdere le parole. Anche lo scrittore cileno – come Camus – ha provato ad approcciarsi nelle sue pagine al tema del “nazismo”, e più in generale alla comprensione dell’esperienza del Male che attraversa ogni epoca storica, e non si limita ad alzare barriere tra nazioni ma tra uomini e uomini. Persino nella lingua madre esiste l’equivoco del fraintendimento, e una certa dose inestirpabile di incomunicabilità: anche quando dovremmo poter capirci, non sempre in realtà ci riusciamo.
«Da questo momento si può dire che la peste ci riguardò tutti». Quanto la peste arriva a Orano riguarda davvero tutti – nessuno escluso, colpisce la città e i suoi destini come una maledizione. Eppure ognuno vive la peste a modo suo: Rieux prova disperatamente a salvare vite, qualcuno preferisce programmare la fuga, molti vivono le loro vite in attesa del ritorno dei propri cari, altri ancora sperano nel divino, ma sarà difficile smontare una frase come: «E rifiuterò fino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati». Le parole di Camus spesso vengono a trovarmi nella mente perché raccontano un disorientamento senza tempo: così appaiono all’improvviso tra i ricordi lampi che sono le parole de La peste, Caligola, o i Saggi solari – e mi si strozzano in gola, a guardare che il mondo non è poi così cambiato. Che l’Algeria decolonizzata non ha trovato né pace né libertà; che la Francia possiede ancora colonie oltre-mare da cui importa il rum; che l’Italia non ha mai veramente fatto i conti con il suo passato coloniale; che le città possono esser preda di improvvise epidemie; che l’odio può ancora esplodere e accecare le coscienze, e del nazionalismo non ci siamo ancora liberati. Eppure, quanto sarebbe molto più facile vivere scacciando la tentazione della peste, tenendosi stretta la libertà.