Belle Epoque, il secondo album degli Aguirre, che esce per Snowdonia dischi ed è distribuito da Audioglobe, segna il ritorno degli alfieri del mutant pop.
Il disco, frutto di un lunghissimo periodo di gestazione segnato da fermate obbligate e deviazioni sul percorso principale, è una sorta di concept album che segue le tracce di una favola nera declinata sulle note di chitarre e arrangiamenti di ispirazione low-fi.
La band romana tiene in vita la tradizione della storica Scuola Popolare di Testaccio che rappresenta il vero punto d’incontro nella formazione di tutti i componenti. Giordano De Luca (voce, piano, chitarra), Martino Cappelli (chitarre, cori), Alice Salvagni (basso, cori) e Giulio Maschio (batteria).
Se c’è una caratteristica che accomuna le canzoni di questo album è proprio quella di avere radici e ispirazioni molto diverse tra loro. Il collante comune sta nella produzione e nell’approccio dei musicisti che con le loro diverse provenienze riescono a far coesistere elementi all’apparenza diversi tra loro, in un equilibrio dinamico.
Difficile, infatti, applicare un’etichetta o provare a incasellare questo album nella discografia attuale, più semplice rintracciare nella tradizione che parte dagli anni 70 e che fino agli anni 90 ha trovato nei circuiti dei centri sociali ma anche dei palchi più o meno politicizzati uno sfogo ideale, dedicando questo genere di musica ad un pubblico alla ricerca di storie solide e idee dietro ad un album.
Ma ci si sbaglierebbe se si provasse a tenere nel recinto dell’indie impegnato prima maniera questo genere di lavoro che non ha timore di attingere anche al pop nella composizione di linee melodiche meno respingenti per l’ascoltatore. Una storia, quella della band romana, di grande indipendenza e libertà di movimento, che trova già nella sua copertina – a cura di Andrea Barazzutti – il proprio manifesto: un’esplosione di colori a cui fa da contraltare uno sfondo nero, strabordante di elementi disparati, colma di simboli, con elementi umoristici e perturbanti mescolati in un grande mosaico. Una copertina che rispecchia a pieno l’anima della band che si traduce anche nelle sue canzoni.
Gli Aguirre, che traggono il loro nome dal famoso film di Werner Herzog, vanno in direzione ostinata e contraria, non seguono le produzioni da classifica, non inseguono la forma canzone usa e getta e chiedono all’ascoltatore di fermarsi e dedicare tempo e attenzione al loro lavoro. In questo proposito, supportato da lungo lavoro di preparazione a questo album, rappresentano di sicuro un elemento di diversità nel mare magnum della discografia del nostro paese.