Può essere una questione personale, e di tempi che non esistono più, ma non possiamo che fare i conti con quello che sono stati per noi gli Afterhours. Al passato, sì, perché sembravano aver smarrito la propria identità dopo certi addii e decisioni che gran parte delle persone ancora non comprendono. Folfiri o Folfox ha rischiato, così, di passare in sordina, mentre tutti commentavano ancora quanto fosse grave il fatto che Manuel Agnelli finisse a un talent come giudice o quanto questo potesse influire sulla nuova produzione della band. C’è stato un evento capace di trainare tutto, ma non era certo questo, e se ci siamo lasciati andare da facili perplessità abbiamo volontariamente dimenticato il fatto che si tratti di un pezzo della nostra storia. Questo mondo, per ora, sa difendersi dal gusto del gossip e se solo ora lo capiamo è forse meglio. L’odore della giacca di mio padre è proprio una delle chiavi di lettura di un disco sofferto, che potremmo definire maturo se non fosse un’inutile riproposizione di ciò che ha sempre caratterizzato la loro musica, che già erano maturi agli esordi, figurarsi ora che di album ne sono usciti undici, tralasciando volontariamente tutto l’altro materiale.
Il cammino di Folfiri o Folfox riprende le tracce impresse sulla neve di Padania, ma il percorso si fa ancora più interiore, malato e arrabbiato, davanti a ciò che possiamo solo limitarci a vedere crollare, un paese caotico come una vita che lentamente si spegne. Il disincanto di Agnelli ha raggiunto una consapevolezza diversa, ormai, e al pari del ritorno a casa di Quello che non c’è, si tratta solo di contestualizzare quello che si prova dentro (Ti cambia il sapore) con il resto che è fuori (Il mio paese si fa). Dello stile del passato è rimasto tutto, soprattutto nel modo di descrivere situazioni e sentimenti, ma la penna la conoscevamo, quello che invece si è rifatta per la maggior parte è la struttura melodica, che meritava particolare interesse visto l’addio di componenti importanti com’erano la batteria di Giorgio Prette e la chitarra di Giorgio Ciccarelli. Allora ci troviamo una complessa rivalutazione di ciò che sono stati gli Afterhours e quello che possono essere ora, con nuove orecchie ed esperienze che ne confluiscono. E se, probabilmente, San Miguel, diventa una specie di tributo al passato più rauco, è evidente come l’alternarsi di ballate più melodiche (Lasciati ingannare) a pezzi più rabbiosi (Cetuximab) sono frutto di un concepimento doloroso, l’unico che possa unirsi effettivamente con ciò che viene cantato. Poi arriva la psichedelia di Folfiri o Folfox, che rimane solo apparentemente nascosta sotto l’acustico di Noi non faremo niente o dal violino distorto di Rodrigo D’Erasmo in Il trucco non c’è. Più che un compendio di tutto è un conoscersi bene, che ci sarebbe da continuare per mesi a ragionare su questa stratificazione sonora, che si fa accogliente proprio perché riporta a ogni fase degli Afterhours ma poi tende a riscoprirsi nel punto dove vuole lei. La verità è che ci ritroviamo davanti a un album di diciotto inediti, catalizzati tutti insieme da un’unica idea che esprime le sue sfaccettature grazie, soprattutto, a un ascolto approfondito. Fino a confondersi dentro le storie delle persone, come sempre è successo. (Sai Mimì che la paura…)
Paradossalmente ci troviamo davanti il futuro e anche il passato, in cui ogni brano può essere un singolo indipendente che può far cambiare valutazione sul tutto, per poi inserirsi definitivamente nella sua natura. Discorso a parte meritano Non voglio ritrovare il tuo nome e Lasciati ingannare. Su questi, più che in altri, si concentra il writing di Agnelli che, probabilmente stanco di tutto quel buio, ritorna a riflettere su se stesso come un tempo, sulle occasioni perse e su quelle che conviene farsi portare via. Tracce che nascono dal seno de I milanesi ammazzano il sabato e di Padania, per completare quei punti che qualcuno sperava potessero rimanere in sospeso ma, anche queste idee di finale, sono solo apparenti e da raccontare ce n’è ancora forse troppo per averne abbastanza. E questo mostro a due teste, che a tratti è Folfiri ma molto più spesso Folfox ha, probabilmente, ancora troppa fame per fermarsi. Gli Afterhours sono tornati e anche se non sono più gli stessi è soprattutto perché non lo sono mai stati, e ognuno di noi non può che staccare la sua parte, sperando che continui a germogliare nel nostro giardino di fiori malati.