Sento gli occhi pesanti e vi spiego perché. Non sono uno che piange spesso, per non dire che non lo faccio mai. Presupposto, o pretesto, che basterebbe già da solo a spiegare qualcosa, invece lasciamo tutto da parte e cerchiamo di tenere per noi quell’ultima traccia di innocenza, prima che assuma il sapore di qualcosa di già vissuto. Ho avuto la fortuna di conoscere una storia, una di quelle che valgono o di quelle che ti fanno credere di non essere da solo. Solo il tempo potrà stabilirlo, lasciate che giudichi lui, ma quello che abbiamo vissuto, fidatevi, ha già il sapore del perduto, vi basti come assicurazione.
Bologna è una città complessa, trascorrerci ore e giorni, vagare smarriti, avere i propri posti, non basta quasi mai a comprenderla. Ci arrivi vicino, la tocchi di striscio, eppure qualcosa continua a sfuggirti. C’è qualcosa che ha, nell’aria immediatamente scontrosa e poi cordiale, nei suoi modi di essere e di esprimersi, che la rendono più difficile da capire. Se ci sei nato è probabilmente diverso. Puoi giocare in casa ma il peso lo senti di più quando ci finisci, ti piega la schiena e ti corrompe lo sguardo diventato, ormai, vuoto nell’osservare qualcosa che potrebbe ma potrebbe non essere mai, perché sembra che tutti girino i propri occhi da un’altra parte, non volendo guardare cosa c’è di là, solo perché non lo conoscono. E, allora, quelli che ci sono significano una mezza vittoria, per il bene che ti vogliono, perché non potrebbero essere davvero da un’altra parte visto che certi sentimenti valgono ancora anche se nessuno ne parla e nessuno dice che debbano avere un significato. Perché siamo una generazione sbagliata, per cui si dovrebbe vivere oltre, vivere fuori dal tempo, distaccati, non dare questo segno di debolezza che poi ti distruggeranno, e invece sentirsi fragili è così bello se sai che qualcuno ti prende. Non te lo dicono ma c’è un momento in cui, dal nulla, questo calore arriva e ti lasci cadere.
Ho voluto piangere, ed è stato per gli After Crash, ho voluto sentire, provare un’emozione non necessariamente diretta dal buon senso, sindrome di Stendhal, sindrome di Lester Bangs, chiamatela come volete, in fondo essere in balìa di ciò che non comprendete. Un innamoramento momentaneo in cui non sapete come comportarvi. Voi, immobili lì davanti, e tutto intorno nient’altro che ciò che vorreste. C’è il grande nome, più tardi, ma dovete scappare perché non ce la fate a resistere, capite che tutto quello che ci sarà dopo sarà differente. Perché quella ‘cosa’, quell’oscuro significato che ci aspettiamo così tanto dagli altri, è lì davanti, sta accadendo, anche se non sappiamo come comportarci. Lo dobbiamo a noi stessi, in fondo, uno all’altro, una mossa da egoista buono, andare a premere su ferite di altri per trasformare il dolore in forza e così salvarci, trasformare quelle lacrime di sofferenza in qualcosa di liberatorio.
Il fatto è che non ci diciamo mai le cose come stanno, preferiamo la sobria oggettività da conversazione. Siamo finiti a non sapere più quali parole usare davanti a un’emozione nuova perché ci fa paura avvertire una cosa senza istruzioni. Fa davvero così male sentirsi vivi? Ho un paio di foto sul cellulare, basteranno per ricordarmi che tutto questo ha significato qualcosa? Non lo so, ma quando ci siamo stretti così forte che mi si sono addormentate le braccia mi ha fatto pensare a come tutto potrebbe non essere perduto. Gli sfiorati hanno un difetto, quello di aver avvertito qualcosa e di essersi scansati perché era troppo da sopportare. Noi che cambiamo città e abbiamo relazioni a distanza, troviamo più tempo per litigare che per lasciare che tutto questo accada. Ci arrabbiamo se qualcuno è fuori tempo, eppure ci ostiniamo a fare di tutto perché riprendano il nostro passo. Per superare l’uscita, o capire che ciò che facciamo meglio sia anche quello che troviamo più giusto.
Non voglio dire addio a una band, non voglio dire addio a certe sensazioni. Vorrei che certe lacrime fossero destinate a tagliarmi il cuore ancora e ancora, che tutti potessero avvertire lo stesso dolore, e poi la gioia, che c’è stata in quel Locomotiv. Uscire e scoprire che fuori piove e vederla come una conseguenza romantica. Di questo script che abbia una conclusione felice per tutti, anche se si tratta di dirsi addio, per quanto ancora non so, ma come mi farà male rientrare in quel posto sapendo che tutto potrebbe non capitare di nuovo e che queste lacrime potrebbero essere le ultime mai versate. L’occhio si sa abituare al buio solo se ha una luce a cui puntare, in fondo al corridoio. Memorie perdute, forse no, forse domattina è già oggi e quest’acqua di Bologna non servirà a farci riprendere, eppure tutto ha un significato così diverso. Provate a farlo avvertire a un’altra persona, tutto questo, e forse ne capirete l’importanza. Quello che hanno fatto Nico e Cesco è già di là, sulla pelle, sulla cicatrice che sarete più fieri di portare perché te l’hanno fatta due persone che con gli strumenti hanno comunicato qualcosa di così denso che serviranno giorni per smaltirlo e che non possiamo proprio lasciarlo andare via, perché anche gli altri meritano di sentire qualcosa del genere nella propria vita, almeno una volta.
Forse è più una pagina di un diario, scritto di notte senza paure. Forse è la responsabilità di ognuno di noi, arrivare in soccorso per coprire quei vuoti, piuttosto che raccontarvi come gli After Crash abbiano fatto più di un’apertura e siano diventati il nostro main event, suonando tanto, e forte, pezzi nuovi e del repertorio prima di Nathan Fake. Così tanto che poi non ce l’abbiamo fatta a rientrare.