Un dettaglio minore di Adania Shibli: infestazioni sensoriali nella Palestina occupata

Adania Shibli

a cura di Ilaria Matteoni

“Fu deciso e portato a termine: la lavarono, le tagliarono i capelli, la stuprarono e la uccisero.”

Il 13 agosto 1949, il plotone israeliano supervisionato dal secondo luogotenente Moshe, di stanza nella regione sud-occidentale del deserto del Negev, catturò, stuprò collettivamente e uccise una ragazza beduina d’origini arabe. Il 29 ottobre 2003, a seguito della rapida e sopracitata menzione dell’episodio nel diario dell’allora Primo Ministro sionista, David Ben Gurion,[1] i giornalisti Aviv Lavie e Moshe Gorali ricostruirono le dinamiche del crimine alle quali fu dedicato un doppio contributo su Haaretz, successivamente tradotto e rielaborato da Chris McGreal, corrispondente a Gerusalemme per il Guardian. Nel 2017, sessantotto anni dopo la scomparsa della ragazza – il nome della quale resta ignoto – e quattordici anni dopo la riesumazione del caso, la scrittrice palestinese Adania Shibli pubblicò Dettaglio minore (تفصيل ثانوي), tradotto in inglese nel 2020, a cura di Elisabeth Jaquette per Fitzcarraldo Editions, e l’anno successivo, da Monica Ruocco e per La nave di Teseo, in italiano, col titolo Un dettaglio minore. L’opera, racconto a doppia voce dimidiata ispirato dalla lettura dell’articolo di Lavie e Gorali, avrebbe dovuto essere insignita del LiBeraturpreis durante la cerimonia prevista per il 20 ottobre 2023, annullata dagli organizzatori «due to the war started by Hamas», come recitato nella lettera pubblica di scuse.

A differenza degli autori precedenti (plurale maschile volutamente selezionato e non sovraesteso), Shibli trasfigura le sorti dell’anonima ragazza beduina – forse adolescente, come riportano gli studi, nonostante che la data di nascita sia destinata a restare analogamente sconosciuta – organizzando un controcanto al resoconto militare riedificabile per via di fonti ufficiali, tra cui emergono lo stesso report compilato dal secondo luogotenente in carica e gli atti del processo segreto intentato contro il luogotenente, primo stupratore della vittima condannato a quindici anni di detenzione, e i suoi sottoposti: alla prima parte dell’opera – una terza persona onnisciente vi illustra i fatti avvenuti nell’accampamento del Negev tra il 9 agosto, data dell’allestimento degli alloggi, e il già noto 13 agosto 1949 – si giustappone genuinamente una storia in prima persona vissuta dalla narratrice tra le rovine e la segregazione della Palestina occupata. Sebbene la coppia di pulpiti s’introduca al lettore tramite tali e palmari discrasie espositive, Shibli insinua una costellazione d’altri minori tafsillar – ‘dettagli’ – che direi circoscritti attorno al tafīl cui si riferisce il titolo: il 13 agosto 1974, esattamente venticinque anni dopo i crimini del plotone israeliano, sarebbero nate l’autrice e l’alter-ego narratore. È un simile dispositivo che permette d’allacciare i rituali dei due protagonisti, nonché le impronte, atte a calpestare le medesime dune, e i capi, arsi dal medesimo sole immenso: il lontano latrato d’un cane che, nel 1949, infesta il Negev materializzandosi, poco dopo, nell’animale catturato assieme alla ragazza beduina, come pure nel rumore che, negli anni Duemila, avrebbe impedito alla scrittrice residente a Ramallah, di dormire le ore necessarie alla regolare levata mattutina; l’avvicendarsi del ragno, la cui puntura perseguita le ricognizioni e le notti del primo soldato, dalla ferita in rapida suppurazione – così, il terrore della narratrice, tra l’uno e l’altro checkpoint obbligatorio presidiato tra la vicina Qalandiya, Yāfā e Nirim, si manifesta all’interno dell’auto in foggia di monumentale tela di ragno; l’indelebile odore di benzina di camusiana memoria, del quale s’impregnano l’alloggio del secondo luogotenente dopo lo stupro della ragazza, dai capelli corti intrisi di combustibile, e la mano tremula della scrittrice che, durante il viaggio in auto vòlto alla ricerca di testimonianze circa il delitto israeliano, rovescia sbadatamente la sostanza nella stazione di servizio; il suono alieno della parola araba, chiave d’ulteriore delegittimazione della vittima del plotone – nonostante ella indossi gli stessi indumenti dei soldati israeliani, al gridare la propria lingua viene immediatamente e ontologicamente isolata dal resto degli umani presenti – ma anche rivelazione potenzialmente rischiosa per colei che avesse bisogno di sconfinare dal proprio settore d’appartenenza.

Alla stregua della produzione precedente di Shibli, parzialmente tradotta in italiano da Ruocco per Argo (Sensi 2007; Pallidi segni di quiete 2014), Un dettaglio minore figura l’accadimento sfrondando la prosa e sezionando con acribia le componenti del gesto, dell’atmosfera sonora, dell’immagine, le quali – e in virtù di una simile cura formale – ben si prestano a una loro reiterazione cadenzata e quasi rituale: emblematica è, in tal senso, la prima porzione del romanzo, liberata quasi integralmente dal fardello fragoroso del dialogo diretto, di cui non rimane che il proclama sionista rivolto dal secondo luogotenente al plotone in occasione della celebrazione vespertina dello Shabbat, ma scandita dai frequenti lavacri che il protagonista inaugura alla fine d’ogni notte e d’ogni esplorazione sul campo, vòlta allo sterminio delle cellule indigene e nomadi nei pressi del confine egiziano-palestinese. Attraverso le rade e monotone azioni svolte di fronte al catino pieno d’acqua – l’inumidire l’asciugamano, la pulizia del corpo e del volto, l’asciugare il panno e il rovesciare l’acqua sporca nel deserto – e al progressivo peggioramento della puntura di ragno nella gamba del soldato, l’autrice innesta, sulla prima ricostruzione giornalistica, un velame d’inquietudine fantasmatica al quale, tuttavia, mai s’allude esplicitamente e quasi per tema che la larva d’ombra, di fatto intrinseca al paesaggio umano o umanizzato con forza, potesse dissolversi prima ancora della sua delimitazione.

Gruppo di beduini, asini e dromedari nel deserto del Negev, 1956 (foto di Moshe Friedan, Archivio del Negev)

Come i lavacri e i sintomi dell’infezione, altrettanto scarne e ripetitive sono le sensazioni sonore, olfattive e visive che accompagnano la raffigurazione del deserto, il Sole sul quale pare deformare l’ambiente e renderlo surrealisticamente giallo – e il pensiero non può che andare a ciò che Egon Schiele, artista austriaco morto il 31 ottobre 1918, disse delle stelle che «gialle scintillano, finché ti senti appagato e devi chiudere gli occhi»,[2] poiché, se nulla può restare dell’appagamento, l’occhio è ugualmente costretto a sostenere l’esacerbazione innaturale del circostante; all’immensità deturpante del Sole è da riconnettere l’accentuazione degli odori che, da una rapida evocazione degli stessi negli articoli del 2003,[3] si presentano nel romanzo quali esaltatori dell’agrore marcescente del campo allestito dagli israeliani, costretti ad abituarsi alle caratteristiche dell’ambiente estraneo e sconfinato; sconfinato e, tuttavia o in forza di ciò, pervaso dalla mostruosità dei suoni rari, in alcuni casi apparentemente sciolti dalla dimensione umana, quali il sopracitato latrato canino; il bramito distante dei dromedari, sensibilmente connessi alla realtà beduina e particolarmente spregiati dagli israeliani; i fendenti di vento che percuotono gli spioventi delle tende. Neppure al silenzio è garantita esistenza neutra o passiva, in quanto pare anch’esso trasmutare i caratteri propri del paesaggio – le dune del Negev «perseverano» nel silenzio – e fungere da canale d’inasprimento dei suoni ultimi del delitto: è lo strappo della veste della ragazza, lacerata dal protagonista al momento del lavacro umiliante, è il colpo metallico della testa della pala che scava la fossa, sono il grido e lo sparo.

“Siamo immerse in un silenzio simile a quello della natura […].”

Simili infestazioni divengono, nella seconda parte del romanzo e nel tentativo di costruzione di un ricordo collettivo che sia anche letterario, le fondamentali depositarie della memoria equa. Come nel deserto, l’abbaiare lontano, le sferzate di vento e il silenzio perseguitano il paesaggio palestinese e le colline che delimitano Ramallah, tuttavia pure decomposti da suoni alieni alla dimensione coloniale israeliana, tra i quali è assurto a ruolo protagonista il quotidiano bombardamento (a Nirim, nonostante le esplosioni provenienti da Gaza, non giunge la polvere), sfondo del preciso delinearsi delle dinamiche d’occupazione e dell’introduzione dei principali luoghi di segregazione – la narratrice, messasi in viaggio perché sia possibile riattivare il corpo del crimine, supera il campo di prigionia di Ofer, edificato nel 2002 e all’interno del quale sono oggi detenute centinaia di persone d’origine palestinese, talvolta trasferite dal campo di tortura di Sde Teiman, e costeggia il Muro d’apartheid, progettato per estendersi oltre i 700 km e la cui costruzione venne promossa nella primavera del medesimo anno, circa il quale non manca la menzione dei graffiti, quantitativamente in crescendo, tracciati da Banksy.

Muro d’apartheid nei pressi di Gerusalemme, dicembre 2005

Non definisco casualmente l’infestazione come fondamento della memoria, dal momento che, se passato e presente – sul cui legame aleggia l’agitazione del futuro – possono certamente essere legati l’uno all’altro dal Luogo, vero è che del luogo palestinese non resta nulla, né il nome originario né la rovina; entro la realtà israeliana, invece, anche i semplici accampamenti di ricognizione lasciano resti e segni. In che modo può dunque essere tutelata la memoria di un popolo, se neppure i complessi museali offrono il degno rifugio a dettagli minori ed esistenze particolari? Riesumando, per via manifestazioni sensitive che tracimano secoli e devastazioni, le immagini fantasmatiche, cosicché i cani e le fanciulle di un tempo perduto possano, ancora una volta, tormentare l’umano e reclamare il posto del passeggero, almeno finché il rumore lontano degli spari non romperà il silenzio.


[1] Lo stesso episodio fu menzionato dopo il 29 ottobre 1956, in occasione del processo contro il corpo di polizia di frontiera israeliano che uccise quarantotto persone civili, di origini arabe, nel villaggio di Kafr Qassem.

[2] Egon Schiele, Ritratto d’artista, trad. di Claudio Groff, Abscondita, Milano 2007, p. 76.

[3]  Come riportato, il secondo luogotenente Moshe, rifiutando l’accusa di stupro di fronte ai giudici, si giustificò affermando che sarebbe stato impossibile avere rapporti con una ragazza così sporca.

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