Una crocetta rossa sul calendario indica che quello è il giorno. Il tredici maggio 1980, in occasione degli ultimi festeggiamenti per San Pancrazio, Rino rapisce Ada. Quella bambina, che in realtà era Beatrice, e si chiamava così soprattutto per sua mamma, una donna sconvolta in quel momento dal primo panico nel bel mezzo della fiera di paese in cui si trova e poi, negli anni che seguono, dal dolore profondissimo per la perdita di una figlia, a cui non ci rassegna mai.
Inizia appunto con la scomparsa di una bambina di pochi mesi Ada brucia. Storia di un amore minuscolo, il romanzo di esordio di Anja Trevisan uscito da poco per la casa editrice indipendente effequ. Le motivazioni del gesto di Rino, intagliatore di orologi solitario e schivo che negli anni ottanta ha venticinque anni, sono presto note. Con Beatr…Ada è stato un colpo di fulmine, doveva portarla con sé e ce l’ha fatta, consapevole del dolore che avrebbe provocato tutt’intorno.
Una carezza leggera, un sospiro, e stanno insieme, da adesso a, spera Rino, tutto il tempo che rimane.
Non è un giallo Ada brucia. Non è Lolita, anche se all’opera di Nabokov si avvicina di molto, così come per la scelta di quel nome (Ada, proprio come Ada o ardore) toccato in sorte alla piccola per una scelta di Rino, che è deciso a tenerla con sé, chiusa in casa, lasciando tutto il resto fuori, arrivando ad abbassarsi per non essere visti se qualcuno dovesse passare vicino alle finestre o, peggio, a seguire una narrazione che vuole quella casa come unico luogo sicuro in un mondo che brucia chi non ha le scarpe adatte per camminarci. Rino, che è grande, ce le ha. Ada, che anno dopo anno cresce vedendo e riconoscendo come suo unico affetto Rino e soltanto lui, ancora no. Non ci sono scarpe della sua misura per affrontare il mondo che brucia, ma i piedi le cresceranno e, finalmente, un giorno potrà uscire anche lei di casa. Per la piccola Ada questa è la normalità, si affeziona al suo Bapu, come lo chiama lei, vede in questo ragazzo l’unica sua fonte di rassicurazione. Pensa che tutto questo sia normale, perché non conosce altro.
È Ada, Ada e basta, e sempre lo sarà.
Di normale, nella storia di Rino e Ada, non c’è niente. Il ragazzo dice di volerla tenere con sé e proteggerla, ma riesce a far passare come normali atteggiamenti abusanti, proprio perché la bambina non è cosciente. Dice che non le farà mai del male, che quando sarà il momento si mostreranno insieme fuori e tutto andrà bene, perché tra di loro c’è stato qualcosa dal primo momento in cui l’ha vista. Vuole insegnarle l’amore, quando in quella casa, in cui la porta viene sempre chiusa a chiave, non c’è niente di sano. Inevitabilmente Ada si affeziona, pensa che quello sia l’amore, che il mondo vero sia una realtà da cui proteggersi, impara presto ad avere paura di ciò che non conosce. Vive di poco, sempre scalza, con vestiti di fortuna, non ha mai avuto giocattoli suoi. Crede che non fare rumore, non farsi vedere da fuori sia ok. Sviluppa una forma di dipendenza nei confronti del suo rapitore, insieme condividono riti su riti che sono solo di loro due.
Giurò che non le avrebbe mai fatto del male, che lei gli avrebbe voluto sempre bene e che prima o poi, quando fosse stata pronta, sarebbero andati in mezzo alle persone e lei avrebbe potuto dire che tutto quello che era stato era stato bello e giusto.
In Ada brucia c’è molto di Dogtooth di Yorgos Lanthimos, film che Anja Trevisan cita insieme a Nabokov tra le sue fonti di ispirazione. Le stesse dinamiche di potere maschile: lì un padre, qui un giovane plasmano una realtà che non esiste decidendo di chiudere i propri cari, lì l’intera famiglia, qui la piccola sottratta alla madre e poi cresciuta, in un microcosmo chiuso che ha regole proprie e le impone in nome della sopravvivenza. Fuori non si esce, si resta nei limiti della recinzione, non si attraversa mai il bosco, luogo d’isolamento per eccellenza. Si vive di prove e rituali. Bugie su bugie, storie spaventose, prove e verità da nascondere sotto al tappeto in nome di un ordine superiore.
[…] se c’è una cosa che Bapu non fa è gettare le cose, perché significa liberarsene per sempre e nessuno dei due ne è capace.
Non è un romanzo facile Ada brucia, né a leggerlo né, si può immaginare, a scriverlo. A maggior ragione, poi, se è anche un’opera prima. La scrittura di Anja Trevisan attrae e respinge, racconta della notte più nera, lasciando sempre uno spiraglio di luce a guidare chi legge. In meno di trecento pagine di romanzo svela molte delle cose più sporche che possano capitare ad un adulto, figuriamoci a una bambina, e in seguito, preadolescente: il non detto, le bugie, l’orrore, la malattia mentale (Rino è una persona che ha evidente bisogno d’aiuto, la salute mentale della piccola Ada rischia di essere compromessa per sempre), la reclusione, quei confini fisici e comportamenti che non andrebbero superati, la realtà inventata, il futuro immaginato. In Ada brucia c’è sempre vivo questo amore piccolissimo che si spinge oltre ogni logica, un sentimento che si fa davvero tanta fatica ad accettare (è possibile provare amore in una situazione del genere? questo l’interrogativo), tanto puro quanto torbido. A fine lettura è inevitabile che strascichi della storia di Rino e Ada vi rimangano addosso, come succede agli stessi personaggi, ormai vittime e carnefici di loro stessi.