Bastano i primi secondi di A due passi dal cielo per essere accolti nel mondo di Paolo Saporiti: un arpeggio di chitarra, l’ingresso contemporaneo della sua voce suadente con il rullante che detta il tempo.
Io non ti conosco / che colpa ne ho? / Io non lo pretendo / che spazio mi dai? / Non chiedere mai perché / Ed ho deciso ormai che non è più importante / sapere che pensi di me/ per tanto così non conta niente / non dire che tu sei parte di me.
Ho scoperto Paolo Saporiti in una sera di poco più di due anni fa, a un concerto dei Todo Modo, il progetto sperimentale che porta avanti con Giorgio Prette e Xabier Iriondo. Quella sera la voce di Saporiti era stata un’autentica scoperta; libero dal lavoro di studio, sul palco Saporiti aveva avuto modo di riprendersi il proprio spazio, quella capacità spaventosa di far arrivare con poche note della sua chitarra e pochi passaggi della sua voce un carico di onestà e sincerità, doti assolutamente rare nel panorama musicale contemporaneo. Eppure Paolo Saporiti aveva, già due anni fa, ben sei dischi da solista alle spalle, gli ultimi due dei quali (dal bellissimo disco omonimo del 2014) cantati finalmente in italiano. Perché Saporiti non è soltanto un cantante e un chitarrista di assoluto valore, ma si è dimostrato nel tempo anche un attento compositore di liriche.
In questo nuovo lavoro, Saporiti sceglie un registro che assomiglia a una carezza su un viso sconfitto, un balsamo su ferite passate che fanno ancora male e che si riflette negli arrangiamenti incisivi ma mai prepotenti, con un equilibrio che finisce con l’apparire del tutto naturale quando è invece un obiettivo difficilissimo da raggiungere. In Acini (dal titolo di un romanzo inedito di suo padre) domina una dimensione complessiva di delicatezza che somiglia più a uno stato d’animo che all’effettivo prodotto delle scelte artistiche, che procedono senza strappi anche negli episodi in cui le canzoni subiscono veri e propri colpi di scena musicali all’interno della singola trama.
Rispetto agli ultimi lavori, Acini è un ritorno a un suono più classico, è un disco fortemente cantautorale, un piccolo gioiello artigianale realizzato però da un musicista vero, capace di disseminare segni, di lasciare tracce, anche minime ma riconoscibili, delle sue abilità compositive. Con Acini, Saporiti si muove nel solco di quella musica italiana e internazionale di inizi anni novanta ma lo fa più nella vocazione che negli esiti raggiunti, più nell’approccio che nel risultato finale che riesce a essere sempre con un passo dentro la contemporaneità.
È un disco solo apparentemente meno autobiografico, meno diretto dei precedenti, ma nel quale Saporiti riesce a far sentire sempre molto forte la sua voce autorale. Le dieci canzoni che compongono l’album assomigliano a finestre che si aprono solo leggermente sulla penombra di un’intimità come in una raccolta di racconti del novecento, con una storia che, improvvisa, fa capolino all’interno di una stanza, dove riusciamo a cogliere l’atmosfera senza che però ci sia mai data la possibilità di sapere quella storia da dove provenga né dove stia andando. Canzoni come miniature, istantanee che parlano di rapporti umani, di silenzi, di abbandoni, di distanze, di tradimenti, di temi a un tempo personali e universali, che lasciano addosso la sensazione di esperienze vissute, di frammenti che tornano alla memoria attraverso la voce di un altro.
Il ritorno alla collaborazione con Christian Alati dal suo primo progetto Don Quibol (qui come arrangiatore, compositore e polistrumentista) mantiene intatto, pur nella forma della canzone cantautorale, un approccio da musicista rock che trova perfetta sintesi nelle tante ballate che attraversano il lavoro come Che cosa rimane di noi, America, Amica Mia e il bellissimo singolo Arrivederci Roma.
Svanito di colpo da qui sul tuo treno di carta / mi chiami ogni tanto alle tre come fossi una star / mi hai detto se fossi papà chiamerei molto spesso / mio figlio è lontano da qui e non ha cura di me / mi sono risvegliata una mattina / col senso di sconfitta e di gravità / la valle incatenata nella brina / e un cerchio immacolato e verità
Profumo di te e Anima Semplice fanno sentire più forte il peso degli altri due musicisti. La prima è un pezzo rock classico in cui emerge la batteria di Cristiano Calcagnile che costruisce un tappeto sonoro su cui ha modo di sollevarsi la bella voce di Saporiti mentre fa capolino anche il suono di una chitarra elettrica. La seconda invece è una ballata blues che gioca con il suono del banjo e le spazzole sulla batteria che sembra venir fuori da un locale fumoso degli anni cinquanta in cui la chitarra insegue note perdute nei ricordi malinconici di una storia finita come in un vecchio standard americano.
Se la prima parte del disco era contraddistinta da arrangiamenti essenziali, la seconda ha un piglio più da band e, come per i due pezzi precedenti, anche Cambieremo il mondo è un brano con una struttura più corale che nel testo abbandona, per un momento, l’introspezione del disco per un attacco frontale ai giustizieri social.
Prima del finale quasi pop con La mia luna c’è però tempo per la bellissima Le passeggiate notturne del Re, una lunghissima ballata crepuscolare, dalle atmosfere rarefatte e post rock.
Per quanto si provi a cercare somiglianze, assonanze, possibili ascendenze, ogni tentativo è vano: Paolo Saporiti assomiglia solo a se stesso grazie a un approccio musicale del tutto personale la cui cifra più peculiare risiede in una capacità di tenere in equilibrio tutte le spinte che attraversano le sue canzoni. E grazie, non ci si deve stancare di dirlo, a una timbrica bellissima, cui si affida senza mai strafare.
Se esiste un Dio cui Saporiti è disposto a consacrare la propria arte è certamente un Dio delle piccole cose, che si nasconde dentro sottili passaggi, in improvvisi cambi di tempo e di atmosfera, nella scelta di un linguaggio semplice eppure allo stesso modo molto preciso e autentico. Perché questo è alla fine Acini, un disco autentico, un’oasi breve ma felice, dentro la distrazione del mondo «un lavoro pieno di amore, declinato nelle sue varie forme – come lo descrive lui stesso – stati universali che mai come in questo momento, ritengo giusto e sensato scandagliare come autore di canzoni quarantenne che vive in Italia, paese in costante e irrefrenabile declino».