I film di genere in Italia sono da sempre accolti con sufficienza, come facessero parte di un Cinema minore che non prende rischi e responsabilità: Stefano Sollima con ACAB ha dimostrato esattamente il contrario. Ha voluto girare un poliziesco rischiando non poco sia perché ha attinto a piene mani dal controverso e discusso libro-inchiesta di Carlo Bonini (stesso titolo libro e film) sia perché raccontando, a margine della storia dei poliziotti protagonisti, eventi tragici avvenuti negli ultimi anni nel Belpaese (G8 di Genova, stupro-assassinio di Giovanna Reggiani, omicidi dell’agente Raciti e di Gabriele Sandri) avrebbe potuto facilmente fare un lavoro schierato politicamente, di parte. ACAB racconta le vicende di esseri umani mostrando crudamente le loro scelte sbagliate così come le frustrazioni che la vita quotidiana gli vomita addosso: il paradosso è che i protagonisti di questa storia sono forze dell’ordine e nella loro esistenza tutto pare riescano a mantenere fuorché l’ordine e la tranquillità dell’ambito personale e familiare.
Cobra, Mazinga e Negro sono tre poliziotti del reparto mobile, “celerini” come vengono definiti e come amano definirsi: hanno vissuto sulla loro pelle la degenerazione di una società che non riesce a mantenere le regole che si è data per il vivere civile e li chiama come ultimo baluardo per mantenere un ordine quasi inesistente, e vissuti in mezzo all’odio e alla violenza costante sono divenuti loro stessi specchio di quel lato perverso dello Stato che dovrebbero difendere e rappresentare. I “celerini” dicono che da soli non sono nessuno, hanno bisogno dei “fratelli” per fare squadra, e quando si è parte di un gruppo si diventa qualcuno, perché quando “sei per strada non c’hai nessuno, solo i fratelli”. L’uso spregiudicato della forza, il farsi giustizia da soli anche lì dove la legge dice di fermarsi è consuetudine per Cobra e i suoi fratelli, che devono fare i conti con storie private che esasperano l’approccio con le storture del mondo esterno che incontrano durante il lavoro: così quando alla squadra viene assegnato Adriano, un ventenne delle borgate, si rendono conto di doverlo addestrare a diventare un “celerino”…come loro.
ACAB è l’acronimo di “All Cops Are Bastards” (tutti i poliziotti sono bastardi), motto venuto alla ribalta per una canzone di un gruppo rock skinhead inglese negli anni ’70 (presente nella devastante colonna sonora con White Stripes, Clash, Chemical Brothers) e divenuto da allora sigla universale che unisce e contraddistingue le frange violente delle tifoserie calcistiche e dei movimenti di guerriglia urbana. Il regista Stefano Sollima, all’esordio cinematografico dopo l’apprezzata prova televisiva con la serie di Romanzo Criminale, in seguito alla lettura del libro di Bonini ha pensato fosse l’ideale per ricavarne un film di genere che potesse esprimere anche una denuncia sociale molto forte. In effetti il prodotto di questa idea di Sollima è un’eccellente pellicola che racconta la società di oggi, piena di odio e intolleranza, ma dal punto di vista dei “celerini” esplorati come mai era stato fatto prima. Con ACAB cambia la prospettiva con cui il cittadino comune guardava al poliziotto senza considerarlo una persona con vita propria; il celerino è il primo a cui viene chiesto aiuto ed è il primo che viene insultato e combattuto per quell’assenza dello Stato che rappresenta con la sua divisa, assenza di cui è vittima il celerino stesso, assenza che viene palesata per tutto l’arco della pellicola.
Il film si suddivide in una prima parte molto fisica e d’azione con riprese di guerriglia, di scontri, con la violenza sbattuta in faccia dalle immagini crude e realistiche; e in una seconda parte più introspettiva, in cui la narrazione si sofferma sulle problematiche dei protagonisti, sul loro stato d’animo associandolo e annodandolo in maniera prepotente agli abusi e alle azioni violente. Il cast è formidabile: l’esordiente Domenico Diele non poteva trovare compagni migliori per la sua iniziazione, e se Marco Giallini col passare del tempo si sta confermando uno dei più versatili e convincenti interpreti della cinematografia italiana degli ultimi anni, ha piacevolmente sorpreso il lato oscuro della recitazione di Filippo Nigro conosciuto finora attraverso le opere di Ozpetek e Lucini. E che dire di Cobra? Che è interpretato da un fuoriclasse, da uno dei più bravi, se non il più bravo, della generazione degli attori italiani quarantenni: Pierfrancesco Favino è un fiume in piena ad ogni ruolo interpretato, e la condizione emotiva che trasmette con il suo “celerino” rabbioso e solitario, fiero e frustrato, è l’emblema della storia rappresentata nel film. La storia di ACAB si conclude senza eroi, senza permettere allo spettatore di parteggiare per nessuno; alla fine tutti i personaggi rappresentati risultano sconfitti a partire da quei “celerini” che Sollima definisce “spugne d’odio” per finire alla società che li circonda e che li rende tali o permette loro di essere tali.