A guardarsi intorno, pare sia impossibile parlare degli A Place To Bury Strangers senza tirare in ballo quella storia dei pedali, quasi come se parlare degli A Place To Bury Strangers a partire da quella storia dei pedali sia ormai diventato — nella nicchia già abbastanza ristretta dello scrivere di musica — una specie di sottogenere letterario a parte. Così questa recensione non farà differenza — anzi, forse peggiorerà le cose, in tal senso — da un lato perché cimentarsi con una nuova specie di sottogenere letterario a parte è sempre una sfida interessante, dall’altro perché, in effetti, ci sarà un motivo se, a guardarsi intorno, pare davvero il sogno irrealizzabile di un povero idealista quello di riuscire a imbastire un discorso serio sugli A Place To Bury Strangers senza tirare in ballo quella storia dei pedali.
Detta senza tanti giri di parole: è abbastanza importante, quella storia dei pedali, quando si parla degli A Place To Bury Strangers.
La quasi totalità dei chitarristi che vedete in giro — e converrete che stiamo parlando di un bel bacino di utenza: il mondo è pieno di chitarristi, al punto che qualcuno una volta, a chiusura di una conferenza di liutai durante la quale si stava paventando la progressiva estinzione del mestiere, riassunse il problema dicendo che, di questo passo, entro pochi anni avremo più chitarristi che chitarre — siano essi famosi, dilettanti o semplicemente falliti, ha in comune una caratteristica di fondo: qualunque sia stato il motivo (il completino da scolaretto di Angus Young, il capello afro di Jimi Hendrix o un banale falò di Ferragosto sulla spiaggia) si è approcciata allo strumento attratta innanzitutto dall’oggetto in sé (o comunque, da quello che rappresentava per il suo immaginario) e solo successivamente ha fatto sul serio i conti con il suono che ne usciva, considerando (chi più, chi meno) l’opportunità di manipolarlo, in qualche modo. Qualcuno si è pigramente limitato a scegliere un set di effetti standard dalla lista di quelli consigliati dalle riviste specializzate, qualcun’altro ha accantonato subito l’idea dandosi a una fortunata carriera di folk acustico, qualcun altro ancora è diventato Matthew Bellamy e adesso quando ascolti uno degli ultimi dischi dei Muse non sai mai se quello che hai sentito è un assolo o una scarica di raggi laser rubati dall’hard-disk del sound designer di Star Wars.
Poi c’è Oliver Ackermann.
Oliver Ackermann è quello che ha capito una cosa meno scontata di quello che sembra, ovvero che il bello della chitarra elettrica è — appunto — quello di essere elettrica. In altri termini, la chitarra elettrica ti dà la possibilità di posizionarti a tuo piacimento in quel range infinito di scelte di vita che — fin dai tempi dell’ardua decisione riguardo a quale liceo iscriversi dopo le medie — ha sempre reso incerta l’eterna lotta tra formazione classica e formazione tecnica e che — in questo caso — va dal virtuoso puro del pentagramma al perito elettronico fresco di diploma e appassionato di forme d’onda più o meno punk. Insomma, se decidi di suonare la chitarra elettrica puoi scegliere — in base ai tuoi interessi, alla tua predisposizione naturale, o anche a un mero studio di marketing — quanto essere chitarrista e quanto elettricista.
Oliver Ackermann è un elettricista che ce l’ha fatta.
D’altra parte si sa: le vie per far breccia nel music business sono come quelle del Signore — (in)finite — ma purtroppo quelle più note sono anche — come quelle del Signore — ben affollate e intasate. Riuscirci passando attraverso la piccola fessura che porta dai circuiti stampati ai palchi dei maggiori festival mondiali, bisogna ammettere che è stata prima un’idea e poi un’impresa non da poco, ai livelli (per rimanere in tema) del famoso cammello alle prese con l’altrettanto famosa cruna dell’ago.
La narrazione che ormai si è sviluppata attorno a Oliver Ackermann ha infatti i contorni distorti del sogno malato di un guitar nerd e viene comunemente raccontata attraverso la ben nota parabola che vede come protagonista uno smanettone di differenze di potenziale, interruttori e potenziometri — un topo da laboratorio di elettrotecnica con un debole adolescenziale per i Ramones, i Dead Kennedys, i Circle Jerks e qualunque cosa che in generale dia la scossa — che, invece di unirsi agli anarchici antagonisti e sabotare nottetempo centrali elettriche, opta per una diversa quanto originale forma di protesta non violenta (dove l’aggettivo — “non violenta”, dico — risulta realistico solo se teniamo i nostri timpani fuori dalla questione): (h)ackerare — nomen omen — pedali e filtri di pre-amplificazione per sentire (perdonato il gioco di parole) l’effetto che fa.
Nel dettaglio, mentre gli altri aspiranti menestrelli facevano ginnastica per le dita e studiavano matti e disperatissimi scale che, a forza di aumentare progressivamente il numero dei gradini — da una banale pentatonica dove per arrivare da un Do all’altro devi fare, diciamo, il salto più lungo della gamba a una complicatissima dodecafonica composta di passettini minuscoli e precisi da suonare a velocità vertiginose — li avrebbero portati a salire fino al paradiso dei guitar hero, lui si esercitava — armato di maschera da saldatore, tester e cavetti — su una serie di note del tutto personale (chiamiamola, per assonanza, scala cacofonica) che andava dal bzzz al fzzz e che, una volta perfezionata, lo avrebbe reso — agli occhi degli amici di cui sopra — una specie di guru: lo stregone col riporto più buffo a memoria d’uomo nella cronologia del rock, capace di cavalcare a piacimento le onde di una corrente sapientemente alternata e far uscire l’inferno da quelle cose chiamate amplificatori.
È stato un processo tutt’altro che lineare, tutt’altro che facile, tutt’altro che indolore: è stato un progredire lento e impacciato, fatto di errori e correzioni in corsa (perché permettersi di sbagliare è il primo passo verso una vera e propria crescita — ce lo dice l’evoluzione umana, ancor prima che qualcuno lo codificasse in un metodo da mettere nei libri e lo chiamasse, appunto, trial & error), di approssimazioni successive che gli hanno permesso di definire una sorta di autoironica (ma non troppo) poetica del rumore, e lo hanno portato prima a fondare un’azienda chiamata Death By Audio, poi ad accettare qualunque richiesta su commissione (anche quando non aveva la più pallida idea di come realizzarla — «People gave me orders, and I just agreed, whether I knew how to do it or not. I used to say, “Sure, I can do that. It’s going to take me a month.” Then it would take three months, and they would be pissed off. They gave me like $200 for three months of labor. But I got to learn something in the meantime.») e infine a vendere pedali per chitarra dai nomi evocativi come Absolute Destruction, Supersonic Fuzz Gun o Total Sonic Annihilation a prezzi esorbitanti a chi se lo poteva permettere (Trent Reznor, The Edge, Jeff Tweedy e forse anche il figlio di papà che abita sotto il vostro appartamento e tortura la sua Fender puntualmente ogni notte tra l’una e le tre).
Così facendo ha equamente diviso il suo pubblico tra chi sostiene che ha fondato una band al solo scopo di testare sul campo le sue creazioni e chi, al contrario, rimane ogni volta estasiato di fronte a cotanto ingegno, dichiarando senza mezzi termini che nel campo del post-punk (o comunque vogliate chiamarlo — torneremo sulla questione magari più avanti) suoni del genere non si sono mai sentiti. Il che è sicuramente vero, se non altro per i volumi da estremista della percezione uditiva verso cui, di solito, li spinge lui.
La realtà dei fatti sta, come spesso succede, nel mezzo. Sotto un certo punto di vista è sì inconfutabile che la dimensione (soprattutto quella live) degli A Place To Bury Strangers — tra chitarre spaccate per terra, collisioni di strumenti in volo e dissezioni di sei corde senza anestesia — sfiori i confini della pagliacciata noise. D’altra parte non c’è da escludere che sia fondato il forte sospetto secondo cui, alla base di quella che è stata semplicisticamente etichettata come “the loudest band in New York” («I guess that sounds cool and dangerous if you’re impressed by loudness. But it’s not really our focus to be the loudest band anywhere. Anyway, we do like to play loud, so I’m not going to fight it. It’s just a little silly.»), ci sia una sorta di estetica sonora, una specie di rigoroso metodo nella pazzia: fracasso, rock e paranoia, agli ordini di un’armata brancaleone di diodi, condensatori e resistenze collegati gli uni agli altri in maniera fantasiosa, ma sempre e comunque senza via di scampo, e sparati oltre i limiti di qualunque legge sul disturbo alla quiete pubblica e privata.
Sarà stata un po’ quella storia dei pedali, un po’ questo mito del volume, ma credo che poche band, nei tempi recenti, siano state in qualche modo fraintese quanto il trio di Brooklyn: derubricati da più parti come semplici revivalisti shoegaze (analisi così superficiale da sospettare che i seguaci di questa scuola non abbiano mai ascoltato un disco degli APTBS — e probabilmente nemmeno un disco shoegaze) e dalle rimanenti come casinisti da vedere almeno una volta nella vita dal vivo (ma sempre con uno spirito autodistruttivo paragonabile a quando esci animato dallo scopo ben preciso di ubriacarti e finire la serata a vomitare nel bagno del locale), in pochi si sono presi la briga di provare a fare un passo oltre quella cortina di suono che dà l’impressione di non lasciarsi dietro prigionieri. Peccato, perché, sorprendentemente, avrebbero trovato la radiografia di perfette canzoni pop scarnificate e ridotte all’osso, melodie nascoste e una cura compositiva che va ben oltre la texture brutale con cui si presentano al mondo. Piene di rumori, ma mai effettivamente rumorose, guardano all’armonia dei Cure ancor prima che all’ossessività dei Joy Division, per poi rottamarla nella macelleria dei Ministry in modo da tener fede alla loro fama di portatrici (in)sane di acufene e ricordarci che non sempre un muro di feedback deve necessariamente fare rima con My Bloody Valentine o Jesus and Mary Chain (a cui comunque Ackermann ha sempre guardato con il dovuto rispetto). Questo per dire che, negli ultimi venti anni, in tanti hanno giocato con il velo di elettricità (e)statica che lo shoegaze — quello vero, appunto — ci aveva lasciato concettualmente in dote, ma probabilmente nessuno era riuscito a incanalarlo in un tale imbuto di aggressività frustrata e amarezza industriale.
Gli APTBS lo hanno fatto grazie alla stessa dote che caratterizza il loro leader (che — ricordiamolo — a livello di profilo psichico ha tutti i sintomi dell’autocratico perfezionista): una sorta di determinazione calcolata e mai impulsiva, che li ha spinti quasi automaticamente a progredire di disco in disco, dove — nel caso specifico — la parola “progredire” non contiene nessun particolare giudizio tecnico o critico, ma la banale constatazione di una serie costante di salti di livello, che ha visto ogni volta l’asticella spostata non tanto più in alto, quanto leggermente altrove. Come il loro leader, la band tutta è diventata maestra di quella metodologia di trial & error e ha tracciato il proprio percorso a zig-zag aggiustando la mira con cadenza regolare ma mai in real-time, anzi, sempre in qualche modo a posteriori (leggi: con l’album successivo), dopo aver accuratamente valutato i risultati della sterzata precedente, dopo aver orgogliosamente lanciato il sasso senza nascondere la mano.
In questo scenario, Pinned si pianta (nomen omen, ancora una volta) come l’ennesimo cartello di confine tra ciò che è stato e ciò che sarà (o meglio, tra ciò che è stato e ciò che gli APTBS vorrebbero provare a vedere se potrà essere) e lo fa — allo stesso tempo sia prevedibilmente che paradossalmente (prevedibilmente perché stiamo comunque sempre parlando di una band che si chiama A Place To Bury Strangers, non — che ne so — The Holy Garden Where To Rest Your Head In Peace, paradossalmente perché questo è — a tutti gli effetti — forse l’album più accessibile di Ackermann e compagni) — in maniera tutt’altro che indolore. Questo per ragioni che vanno in parte anche al di là di premeditate scelte stilistiche o divagazioni di genere, ma che hanno piuttosto a che fare con cause di forza maggiore o — se vogliamo usare una terminologia più tecnicamente sperimentale (che, per quanto detto fino a ora, cade “a fagiolo”) — di condizioni al contorno.
Il quinto album in studio a marchio APTBS arriva infatti in un momento a dir poco delicato della carriera del loro deus ex-machina: all’alba della metà degli anni ‘10, non molti mesi dopo l’uscita del precedente Transfixation, quella storia dei pedali era arrivata — suo malgrado — al capolinea, riducendosi a un semplice e-commerce e lasciando — in un colpo solo — Ackermann senza una parte di fatturato, senza uno studio di registrazione e senza un tetto sotto il quale dormire. «After DBA closed, I moved to an apartment in Clinton Hill; I couldn’t make too much noise, couldn’t disturb my neighbors. I would just sit there and write with a drum machine. It had to be about writing a good song and not about being super, sonically loud.» Guardatelo, fa quasi tenerezza: sembra un ex-ragazzino agitato, ormai troppo cresciuto e costretto a mettersi finalmente a scrivere sul serio delle canzoni invece che dei bordelli sonori di 3-4 minuti.
Come è andata?
Bene, direi, anche perché — lo abbiamo già accennato — le canzoni sono sempre state presenti, sul fondo degli innumerevoli strati di terrore acustico sotto i quali gli APTBS le seppellivano. Qui, inevitabilmente, vengono solo a galla con meno circospezione, pur continuando a grondare della solita angoscia tipicamente goth che però, a tratti, risulta più pulita. Troviamo così — non dimentichiamoci che questo è il primo album della band dopo l’avvento dell’era-Trump — roventi meditazioni sulla verità messa a dura prova da cospirazioni governative (Execution), armonie inquietanti in risposta alle tensioni dell’attuale momento politico (There’s Only One Of Us), pulsanti parentesi quasi alla Cramps (Too Tough To Kill, dove il senso letterale del termine — spasmi — assume una valenza quasi fisica), gloriose rincorse punk tutto meno che nostalgiche (Look Me In The Eye) e addirittura una specie di ballad, o almeno la cosa che, nell’universo APTBS, può avvicinarsi di più a una ballad: Was It Electric è la domanda retorica fatta da un’intelligenza artificiale malfunzionante che ha ascoltato troppo i Belle and Sebastien e a cui gli Stone Roses provano a dare una risposta scontata utilizzando un particolare codice di fruscii e interferenze, ovvero una roba che richiama le cose più belle dei Raveonettes, sporcate quanto basta per non farle sembrare troppo melense.
Anche in termini di formazione, non è che le cose stessero benissimo, al momento di iniziare le registrazioni di Pinned. Tirando le somme e guardandosi intorno, Ackermann si era ritrovato ormai unico membro superstite della lineup originale e, se qualche anno prima la buona sorte gli aveva dato una mano, tirando fuori dal cilindro Dion Lunadon — neozelandese di scuola Peter Hook, sicuramente più fortunato di Niccolò Contessa nel suo azzardo di attaccare in giro un annuncio generico come “bassista cerca gruppo post-punk” — non era assolutamente detto che la situazione girasse altrettanto bene quando è sorta la necessità di trovare l’ennesimo, nuovo batterista. E invece.
Lia Simone Braswell si è incastrata alla perfezione nello schema APTBS, come un interruttore differenziale inserito un attimo prima di un imminente corto circuito e ha portato con sé non solo le ritmiche solide necessarie a sostenere tutto l’ambaradàn, ma anche una seconda voce sufficientemente eterea da incrociarsi meravigliosamente (i due singoli che anticipano l’album ne sono l’esempio più lampante) con il classico cantato monotòno alla Ian Curtis di Ackermann e, nel corso della tracklist, è costantemente presente — al punto da elevarla ufficialmente al ruolo di co-singer — e illumina i nuovi pezzi di un riflesso inaspettato.
Perché gli A Place To Bury Strangers sono così: hanno un talento ormai perfezionato nel ribaltare a proprio favore qualunque situazione critica e, anche quando non riescono a ricreare su disco la violenza compressa dei loro concerti — la missione è, obiettivamente, pressoché impossibile — quello che non abbandonano mai è un’attitudine, una vocazione, un istinto. La loro dedizione all’impredicibile. Se dal vivo non preparano setlist, scrivono pezzi di canzoni direttamente sul palco e cercano di sabotare i ragazzi del service audio nei modi più fantasiosi, anche in studio riescono sempre a sorprenderti, a prendere quella strada parallela ma sufficientemente distante dalla retta via da farti percepire forte quel disagio di quando ti senti a casa ma c’è qualcosa di diverso che non riesci bene a mettere a fuoco, che sia un’atmosfera, un cigolio ossessivo o anche solo un soprammobile fuori posto.
«When something goes wrong on-stage, a lot of bands will crumble under the pressure. We like the idea of embracing the moment when things go wrong and turning it into the best thing about the show. A recording session is not so different: as things go on, you don’t want them to be stagnant. I see so many bands that have been around and they’re a weaker version of what they used to be. This band is anti-that. We try to push ourselves constantly, with the live shows and the recordings. We always want to get better.»
Ha il suo fascino, come generico obiettivo, come convinta ragione di esistere, come ideale antidoto a una pensione anticipata: essere anti-quello. Anti-quella cosa che ti fa invecchiare male, adagiandoti con cautela sul tappeto morbido del continuare a fare — con il minimo sforzo, gli occhi annoiati e la testa altrove — la cosa che sai fare meglio, facendola così — di fatto — progressivamente sempre peggio.
Ci sono riusciti?
Ci sono riusciti.