Il tempo di uscire da lavoro, di fare un salto in una delle pizzerie del centro, una birra a piazza Bellini di corsa e poi tangenziale di Napoli, uscita Agnano, direzione Duel Beat. Stasera a Pozzuoli in un’area ancora incontaminata, crocevia di vegetazione incolta, di località termali e di una Pozzuoli non oleografica e lontana dal mare, è atteso – in un uno dei club storici della musica dal vivo della Campania – Riccardo Sinigallia per il tour che segue il successo del bellissimo Ciao Cuore (uscito il 14 settembre dello scorso anno per la Sugar).
Riccardo sale sul palco ancora avvolto nella penombra e affida l’inizio della scaletta proprio al primo brano di Ciao Cuore, quel So delle cose che so che non tradisce nella dimensione live la sua essenzialità e la sua delicatezza con gli arrangiamenti della band ad accompagnare l’unico momento in cui Riccardo si esibisce senza la chitarra o il piano. Come fossimo in un viaggio nel tempo, segue subito Lontano da ogni giorno che era il brano con cui si chiudeva nel 2003 il suo esordio da solista, disco che portava il suo nome e ponte immaginario con il presente fatto di sfumature minimali e tenui.
Tocca allora a Backliner alzare il tiro: Sinigallia guarda a lungo negli occhi la sua bassista – e compagna da una vita – Laura Arzilli, in un gioco di sguardi e di suoni con le note ostinate della chitarra e il basso che disegna linee insistenti e ipnotiche. Le donne di destra – uno dei pezzi più particolari dell’ultimo album – si affida invece a una lunga intro strumentale a luci spente prima, quindi fortemente virate verso l’azzurro e il rosa. Dal vivo è un brano che gode di un arrangiamento ancora più languido, impreziosito dalle corde pizzicate della chitarra elettrica di Riccardo. Sul finale si fa quasi un blues del delta come di acqua che scorre in un’improbabile quanto affascinante sovrapposizione tra le notti sul lungotevere e i meandri oscuri del Mississippi. La stessa dinamica blues ma più elettrificata riecheggia nel procedere ritmico della successiva Bella quando vuoi che nel ritornello esalta il falsetto di Riccardo qui privato della chitarra funky di Francesco Motta (del quale ha prodotto il bellissimo La fine dei vent’anni) che per un curioso caso del destino si esibisce proprio negli stessi minuti sul palco dell’Ariston.
I giochi di luce disegnano una ragnatela di raggi che trasformano il palco in un misterioso caffè di una notte senza fine della capitale; le luci gialle sembrano quasi riscaldare questa notte invernale immersi come siamo dentro l’umidità dei Campi Flegrei, la grande area vulcanica dove sorge il Duel nella parte occidentale della città. La chitarra di Francesco Valente spezza la melodia con riff decisi e pungenti mentre a chiudere il pezzo ci pensa il kazoo, di casa da queste parti (non lontano da qui è nato il cantautore rock Edoardo Bennato) – “sto cazzo di kazoo” come scherza Riccardo per qualche problema con il piccolo strumento di origine africana.
Dudù non rinuncia al suo inizio trip hop; e si rimane incantati, ancora una volta, davanti a questa madeleine proustiana che con poche pennellate è capace di dipingere davanti ai nostri occhi in maniera quanto mai vivida un universo mondo – omaggio struggente alla bambinaia della sua infanzia, ai ricordi, al passare del tempo, alle persone che hanno attraversato la nostra vita (e ci accorgiamo, a un tratto, del parallelo con il bellissimo Roma di Alfonso Cuarón) – una delle canzoni più belle del 2018 che decolla in un finale trascinante che vede impegnati tutti i musicisti sul palco (oltre a quelli già citati, Andrea Pesce alle tastiere e Ivo Parlati alla batteria).
C’è un cuore che batte, rosso, su un pannello nero appeso alle spalle del palco ed è certamente il simbolo più adatto non solo per evocare un titolo – in fondo ambiguo rispetto alla sua declinazione dell’espressione romanesca ciao core – quanto soprattutto per l’emozione che ogni pezzo carica con sé sul palco per diffondersi poi dalle assi di legno giù tra il pubblico. Riccardo con la sua chitarra si unisce al baccanale finale per poi lasciare lo strumento e godersi la libertà dei compagni e l’affetto del pubblico agitando i fianchi a ritmo di musica, battendo le mani seguito subito da tutti nella sala in un momento di grande sintonia che vede confondersi il musicista e l’autore, il performer con il ragazzo che da sempre ama la musica.
Per Se potessi incontrarti ancora, primo brano da Incontri a metà strada del 2006, Riccardo guadagna il centro del palco per sedersi al piano; qui alla delicata solitudine dei tasti bianchi e neri si sovrappongono lievi tocchi di batteria quindi poche note dal basso e, a crescere, la chitarra. Mentre si accendono deboli e suggestive luci alle sue spalle, Sinigallia si piega sui tasti snocciolando una serie di accordi liquidi à la Keith Jarrett mentre cresce poco a poco l’intensità dei musicisti che si stringono intorno a lui, quasi un centro freddo di una fiamma che crepita fino a innalzarsi verso una chiusura dominata dalle percussioni che ci conduce fino all’incipit di Niente mi fa come mi fai tu (secondo singolo estratto, con un video dedicato proprio all’amore per la sua Laura). L’arrivo di Ciao Cuore segna, invece, una vera esplosione di suoni e colori che inonda la sala coi suoi cambi di tempo e l’efficacia dell’inciso cantato all’unisono dal pubblico.
Le luci si spengono. Sui due schermi dietro il palco appaiono nel silenzio assoluto le immagini di Luca Marinelli e Alessandro Borghi in una scena sul lungomare di Ostia nel bellissimo, ultimo film di Claudio Caligari, Non essere cattivo. Riccardo si siede su uno sgabello per regalare al pubblico gli arpeggi che introducono la bellissima A cuor leggero, preziosa gemma che chiudeva il film. È l’inizio di tre canzoni intime che scaldano davvero il cuore. Subito dopo è, infatti, il momento de La descrizione di un attimo dei Tiromancino di cui Sinigallia fu autore e ispiratore. Pezzo generazionale che si trasforma in una ninna nanna dolce e malinconica che ha il sapore agrodolce delle persone che hanno lasciato la nostra strada.
Su una coda quasi bluegrass Riccardo trova prima il tempo di scherzare sul “talento gigantesco di Maurizio Loffredo al mix strappato al mondo dell’hard” quindi per ringraziare “questi musicisti, questi artisti con cui non solo suono ma con cui spesso ho generato idee per le canzoni mie e quelle degli altri, che sono stati d’ispirazione anche quando – e a Napoli è capitato tante volte – di suonare anche davanti a otto, dodici persone”.
Non c’è purtroppo la folla delle grandi occasioni anzi, Napoli è una città che ancora una volta si mostra difficile soprattutto in questa congiuntura storica che pure ha visto a pochi passi da qui pienoni e soldout per Calcutta e Luchè e maggiore disattenzione verso altri musicisti. Più grave ancora appare soprattutto l’assenza tra il pubblico di addetti ai lavori – giornalisti e musicisti – che sembrano ormai accontentarsi di una visibilità di riflesso invece di una ricerca culturale, artistica e musicale indipendente dai numeri del nome in cartellone di turno. Ma quello di Sinigallia non appare in alcun modo un rimprovero, anzi ci tiene a sottolineare “un’affinità e una vicinanza fortissima” coi presenti “che ci commuove e ci permette di dare e di ricevere qualcosa gli uni dagli altri”.
E la prova arriva subito con una versione bellissima di Prima di andare via con tutto il pubblico a cantare e tenere il tempo e una coda che recupera una dimensione molto più ritmica – tra batteria e le tastiere di Andrea Pesce – che mette in luce l’altra vena del musicista, quella meno cantautorale e più tribale.
Che male c’è – come su disco – è una ballata triste e crepuscolare che scioglie i cuori e allenta i nervi, mentre proprio il cuore sullo sfondo cambia colore – rosso, giallo, turchese – quasi a seguire i cambi di atmosfera con cui Sinigallia racconta la tragica storia di Federico Aldovrandi – su testo dell’amico Valerio Mastandrea. Colpisce la capacità di Riccardo di tenere insieme nello stesso pezzo, nello stesso spazio immaginario di una canzone – e in quello fisico del Duel – il senso alto di un’intimità profonda che non è mai uno sterile piegarsi su sé stessi con l’esplosione che segue la parte centrale del brano.
Che male c’è restituisce così con intensità e bellezza la cifra del suo fare musica, quell’equilibrio – fortunatamente instabile – tra sé stessi e il mondo, fra un universo interiore e ciò che ogni giorno accade fuori, che è, a diverso grado, il segno distintivo di una classe di musicisti che hanno inteso la musica come un’autentica e urgente espressione di una parte di sé che preme per emergere ed essere raccontata non come puerile autoritratto ma come riflesso del mondo e verso il mondo è rivolta; voce che parla all’altro e trova nell’altro una mappa di emozioni, di spazi, di strade, di ricordi che avvolge e unisce, che lega e tiene vicini.
Per tutti, dall’omonimo album del 2014 è un duro atto d’accusa e insieme rivendicazione della propria indipendenza di uomo prima ancora che di musicista. Sorprende – mentre lo osserviamo cantare – la serenità sul viso da eterno ragazzo che non scompare nemmeno in un pezzo amaro e arrabbiato.
In una serata come questa è un piacere trovare conferma – mentre la musica si spinge su territori quasi new wave – che in pochi artisti della scena italiana trova pieno compimento quell’idea romantica capace di recuperare il piacere di scrivere la musica e di portarla in scena, di celebrare a ogni concerto – più che una festa – una vera e propria comunione d’intenti con il pubblico, una celebrazione identitaria, un modo di riconoscersi e di stare insieme, di sublimare le avversità quotidiane in due ore scarse sul palco, un’espulsione di tossine e di pensieri che lasciano spazio alla bellezza della musica e a quella dello stare insieme, dialogo di emozioni silenziose dal palco al pubblico e in mezzo a questo tra le persone che sono l’una accanto all’altra.
Invece di una ritirata dietro le quinte e dello stantio rito della richiesta dei bis, mentre Riccardo prende per un attimo fiato, Andrea Pesce regala al pubblico un pezzo morbido alle tastiere dalle tonalità jazzistiche e quasi prog in cui emergono remoti ricordi del migliore Tony Banks, dando anche la possibilità proprio a un backliner di portare sul palco e accordare la piccola chitarra acustica protagonista di E invece io che non delude le attese con le sue atmosfere acquerellate. Bellamore, ancora dall’album d’esordio, vede di nuovo in scena la chitarra elettrica sorretta da un dialogo intimo tra basso e batteria.
È il momento dei saluti non prima però del finale affidato all’incipit funky di Una rigenerazione, forse la chiusura ideale che spinge la speranza del cambiamento dentro a suoni più nervosi e diretti rispetto alla versione su disco che traghettano il brano verso territori quasi post rock per poi venir fuori con tutta la carica di energia e sensualità. Il concerto è finito e fuori ci aspetta il buio della notte ma la bellezza che ci ha messo davvero la leggerezza nel cuore ha tempo di continuare in un un’ultima chiacchiera con gli amici rubando ore al sonno che ci sarà tempo per quello prima o poi. Un ultimo abbraccio e si va via.
Scaletta:
- So delle cose che so
- Lontano da ogni giorno
- Backliner
- Le donne di destra
- Bella quando vuoi
- Dudù
- Se potessi incontrarti ancora
- Niente mi fa come mi fai tu
- Ciao cuore
- Amici nel tempo
- A cuor leggero
- La descrizione di un attimo
- Prima di andare via
- Che male c’è
- Per tutti
- E invece io
- Bellamore
- Una rigenerazione