“The greatest troll in music”, “The most self-important asshole on Earth”, “The best kind of asshole”, “A persona […] of such self-pretentiousness”, “Satirical and trolling persona”, “A grade-A troll”, “A profilific social media jokester”, “Psychedelics swallowing, satirist, provocateur, and self-aware sex-symbol”. Sono solo alcune delle definizioni che, nel corso degli anni, sono state usate dalla stampa per descrivere Father John Misty e il suo universo. Un universo, ricordiamo, fatto di dischi quasi unanimemente acclamati, ma anche di furti random e ammissioni di colpa ancora più random, apparizioni disturbanti ai festival, interviste se possibile ancora più disturbanti, live tweeting, auto–meme, Taylor Swift, canzoni scritte per scherzo e molto altro, il tutto con una nonchalanche e un modus operandi a metà tra un pagliaccio e uno charmeur d’altri tempi che hanno sempre reso difficile interpretarne le motivazioni e, soprattutto, la sincerità.
Si perché il dubbio che accompagna le uscite dell’autore americano fin dal suo debutto con Fear Fun dieci anni fa, si può riassumere in una dicotomia, che ricorre a ogni intervista, ogni ritratto o recensione: ci è o ci fa? È sincero o ci sta pigliando per il culo? Father John Misty (FJM da qui) è un personaggio fittizio o una persona reale? Di certo l’estrema self awareness dell’artista non aiuta molto a fare luce nella nebbia di trollaggio, ironia, sincerità e posa. Le sue frequenti auto-descrizioni assomigliano infatti molto a quelle che la stampa si è sempre prodigata di affibbiargli (con molta fantasia, abbiamo visto sopra), e ne ricalcano la connotazione denigratoria. “A sarcastic Michael Bublé”, “A homeless Chris Isaak” (la mia preferita), “I’m basically a meme at this point”, “King Indie troll”, “A sarcastic, overcompensating asshole”. In alcune sue canzoni si cita in terza persona, su tutte The Night Josh Tillman Came to Our Apt. e Mr. Tillman. Autoanalisi, sdoppiamento. FJW chi è? Un buffone costruito ad arte o un uomo sincero? Mah, forse nessuno dei due.
“The only thing that gets under my skin is when people say, ‘Josh Tillman’s imaginary character/alter ego/persona…’ Those terms imply a lack of transparency and truth, and I don’t think you could listen to much of this music if it was about a made up person. But I think that most people are in on the joke.” Rimarrebbe quindi la sincerità, nuda e cruda e spontanea, se non fosse che, effettivamente, Father John Misty è uno pseudonimo (anche abbastanza ridicolo) di Josh Tillman, e che è lui stesso a bilanciarsi su un filo sottile tra realtà ed esagerazione, un filo costituito da ambiguità e paradosso. In un ritratto del New Yorker, tra varie dichiarazioni, ne spuntano un paio che testimoniano questa difficoltà di inquadramento: “There’s something innately false about performance. I wanted to be authentically bogus rather than bogusly authentic” e “If you can’t hold two ideas in your head at the same time, you’re not going to get what I do”. C’è qualcosa di finto, ok, ma quell’inautenticità è autentica. Bisogna abbracciare questo paradosso per entrare nel suo mondo. Un suo collaboratore dichiara che c’è una sconnessione tra le cose che lui dice e come le dice. Un articolo del Guardian parla di FJM come della versione esagerata di Josh Tillman: esagerata però non grottesca, caricatura, ma amplificata in quanto totalmente personale, senza vergogna e mediazioni: “All the conflict […] was, ironically, where the clarity was: my spiritual gift is my skepticism and cynicism and my sense of humor […]”. L’ironia, il paradosso, quello che è disturbante perché non si capisce se è serio o meno, sono le cose più autentiche che ci siano.
Quindi, Father John Misty non esagera, non trolla: è proprio fatto così. La sua visione del mondo è già distorta e ironica in principio, e lui la espone nei suoi lavori e nelle sue performance, le quali, però, sono inerentemente finte. Tutto chiaro, no? Father John Misty non è un alter ego, ma allo stesso tempo è comunque un performer. Che roba è quindi?
Per fare chiarezza e dare una possibile interpretazione ci potrebbe venire in aiuto il concetto di comic persona, esposto da Jacopo Cirillo nel suo saggio L’animale che ride. La comic persona discende dal fool, ovvero quella figura, presente da sempre in tutte le culture, con “Il mandato di mostrare il suo punto di vista sul mondo: quello della follia […], del ribaltamento, dell’incongruenza, della valvola di sfogo.” Più avanti: “Tale ruolo viene rivestito da esseri umani con uno spiccato senso dell’umorismo e una visione personale delle cose […]”. Il senso dell’umorismo come “punto di vista sul mondo”. Il senso dell’umorismo di FJM, il suo punto di vista ironico è il suo dono spirituale (parole sue). Iniziamo a unire i puntini.
Un altro aspetto che torna alla mente, leggendo le definizioni di FJM sopra riportate, è la cosiddetta self-awareness, che potremmo tradurre con autocoscienza o, come scrive Gilles Lipovetsky nel suo L’era del vuoto, supercoscienza. La maggior parte dei testi, delle interviste e delle dichiarazioni di FJM hanno questo elemento di auto analisi continua, questo sguardo costantemente rivolto verso di sé, (“His greatest passion is his thoughts”) che sfocia inevitabilmente nel sarcasmo (bisogna avere parecchia supercoscienza per scrivere versi come “I’m writing a novel / because that’s never been done before”, oppure “Oh great, that’s just what we all need / Another white guy in 2017 who takes himself so goddamn seriously”). Autoconsapevolezza che ha portato FJM a dire, ad esempio, che la sua è musica è quella che farebbe un critico. Seguendo Lipovetsky: “E’ l’Io che diventa bersaglio privilegiato dell’umorismo, oggetto di derisione e di autodisprezzo […] Il personaggio comico non dipende più dal burlesco […] bensì dalla riflessività stessa, dalla supercoscienza narcisistica, libidica e corporale.” A questo fa eco Cirillo quando scrive che “è proprio il punto di vista dell’artista che costituisce la comicità”.
Il senso dell’umorismo è quindi un punto di vista sul mondo, e la comicità contemporanea è costituita dal punto di vista dell’artista, del comedian. La figura di comic persona si delinea allora, con Cirillo, come “una specie di personaggio comico con cui (il comedian, NdA) si identifica, di cui costruisce un background (vita, attitudini, credenze, difetti, tic) che possono o meno coincidere con i suoi, e che gli permettono di delineare una cornice comica attorno a ciò che dirà al suo pubblico”. Questa definizione ci permette di inquadrare meglio l’operazione di FJM e il modo in cui i suoi lavori vengono recepiti. Proviamo a immaginarci Josh Tillman come un comedian, e FJM come la sua comic persona: la stessa cosa ma non proprio, condividono lo stesso background e il senso dell’umorismo. FJM non fa allora altro che portare nei dischi e sul palco il punto di vista sul mondo -ironico, cinico, quello che vogliamo- di Josh Tillman. Ecco lo spettacolo, ecco la comicità. Fare di sé stessi un meme e raccontare la propria lore. Le sue performance sarebbero da questo punto di vista vera e propria stand up comedy. D’altra parte, FJM ha dichiarato che in un’altra carriera si vorrebbe chiamare Doctor Fun, e di avere in testa 12 modi di dire funny nella sua testa, così come gli Eschimesi hanno 12 parole per dire neve. Un suo disco si intitola Fear Fun, un altro Pure Comedy. In quasi ogni canzone c’è una parola tipo joke o fun. L’analogia tra sé stesso e un comedian salta fuori in più di un’intervista: qui dichiara di sentirsi un comico per come articola certe tematiche. Il pane quotidiano di un comedian – dice – è la sua abilità di articolare quello che la gente realmente pensa di un argomento.
FJM come comedian, quindi, come comic persona il cui materiale è costituito dalla propria interiorità, dal proprio background, dalle proprie esperienze, le quali vengono raccontate a un pubblico col suo senso dell’umorismo, fatto di ironia e cinismo. E poiché il pubblico condivide con il comedian alcune esperienze, nevrosi, atteggiamenti, tic, si materializza l’effetto comico. Il comedian, e quindi FJM diventa, con Cirillo: “mediatore di una cultura di riferimento che articola e condivide con il pubblico, diventa un antropologo della contemporaneità, un commentatore sociale”. Qui il rapporto di condivisione col pubblico diventa centrale. Nelle parole di FJM: “Lines like, ‘you came, I think’, it’s funny in context because I’m a guy in a room full of people divulging the sexual insecurity, but that line wasn’t written as a joke – it’s a one-for-one description of something.” Un’osservazione (potremmo considerare quel verso come observational comedy) sull’insicurezza sessuale maschile che fa ridere poiché presume un punto di vista, una nevrosi condivisa. La risata come sospiro di sollievo. Oh ma questo sta messo peggio di me. Il ruolo consolatorio della comicità (e della musica): “Music demistyfies the parts of us that we’re most afraid of”.
D’altronde, è lo stesso FJM a essere estremamente consapevole (e ci mancherebbe) di questa condivisione col suo pubblico, quando dice “I’m symbolic of a thing white people really hate about themselves”. In un’altra intervista, osserva come sia ironico (sic) che la gente che lo odia di più sia quella più simile a lui. Eccoci quindi arrivati dalla parte di chi pensa che sia un troll, un testa di cazzo etc. Se le sue canzoni parlano di cose comuni, smascherano idiosincrasie e debolezze condivise, perché mai qualcuno dovrebbe odiare questo simpatico guascone? Ancora una volta, ci viene in aiuto Cirillo con la definizione di gelotofobia, ovvero la paura ancestrale di essere presi in giro. Se FJM in quanto comic persona, mette a nudo qualche tipo di criticità condivisa, e lo fa con una cospicua dose di ironia e sarcasmo, l’ascoltatore potrebbe pure pensare che certe osservazioni sono dirette a lui, e che quindi chi sta sul palco (o il protagonista delle canzoni) lo stia mettendo in ridicolo. È una realizzazione al contrario della teoria della superiorità nel comico: io rido se vedo qualcuno che cade. Al contrario, lui ride di me perché, che ne so, a letto ho tremila paranoie, o perché faccio un lavoro di merda nonostante abbia quattro lauree (in Bored in the USA, ad esempio, al verso “They gave me a useless education” parte una risata finta come quelle delle sitcom che dura fino alla fine del pezzo. Il live al Letterman è talmente meta che boh). “The fact that I’m enjoying it is a bridge too far”: FJM è ricco, famoso, è un artista, fa la bella vita, viene qui a ridicolizzarmi e io dovrei pure pagare? Almeno fatemi scrivere un po’ di insulti su Twitter (da cui FJM è scomparso dopo anni ruggenti).
La comic persona di FJM non è mai stata uguale a sé stessa: in ogni album il suo senso dell’umorismo si è focalizzato su questioni diverse. Per farla breve, in Fear Fun era un adorabile maledetto appena arrivato a Los Angeles: sadomasochismo, trip, il mito della vecchia Hollywood, dissolutezza, limiti da superare, citazionismo, morte. I Love You, Honeybear è uno special sulle relazioni sentimentali, specie sul matrimonio, unica salvezza e/o fonte di ridicolo, con tutto il carico di dubbi, perplessità, role-playing, prevaricazione, fragilità, patetico e sentimentalistico, in una parola ambiguità, che ciò comporta. In Pure Comedy inizia ad avvertirsi uno smottamento tra Josh Tillman e la sua comic persona. Il disco è catastrofico, è il punto di vista sul mondo di FJM solo occasionalmente mediato dal suo senso dell’umorismo. Nonostante il titolo, la comicità qui scaturisce dal fatto che “Life is messy and people are insane” ma nessuno se ne accorge. Il senso dell’umorismo si annerisce, quel senso di apocalisse aleggiante che comunque era presente nei dischi precedenti si fa più pressante. Siamo un branco di mitomani esaltati destinati all’estinzione, però ridiamo di questo. Qui FJM combina filosofia, ambientalismo, economia, antropologia in un quadro veramente preoccupante: il cinismo forse inizia a prendere il sopravvento. “I hate to say it, but each other’s all we’ve got”. Odio dirlo ma mi sa che l’ironia non basta. Il disco è stato scritto per la maggior parte nel 2015, ma quando l’anno successivo Trump è stato scelto come candidato presidenziale, nelle parole di FJM: “Satire died. We live now in a post-satire world because this is the stupidest thing that could ever happen […] All this skepticism and cyinicism that I have felt my whole life became so literal”. Risale a quel periodo la sua sparizione dai social e lo sbrocco a un festival dove FJM si paragona a un Chris Isaak senzatetto e, invece di suonare, sfodera un monologo sulle responsabilità nocive dell’intrattenimento, sulla sua impossibilità di contrastare il male che avanza. La gente rideva. L’album successivo è stato God’s Favourite Customer, scritto durante due mesi di autoreclusione in hotel. Al di là di qualche punchline incredibile (“Last night I wrote a poem / Man I must have been in the poem zone” su di una melodia non proprio ironica. Il distacco tra ciò che ci si aspetta dica in quel contesto musicale e ciò che dice effettivamente è un esempio, sempre con Cirillo, di teoria del ribaltamento) il disco ha ben poco di ironico e qualcosa invece di vagamente preoccupante per il suo stato psicofisico.
Si arriva quindi a questo Chlöe and the Next 20th Century, disco poco o nulla pubblicizzato: zero interviste, zero apparizioni in tv. Strano. Che comic persona aspettarsi stavolta?
L’ultima strofa del disco recita: “I don’t know about you / But’Ill take the love songs / If this century is here to stay / I don’t know about you / But I’ll take the love songs And the great distance that they came”. Delusione? Escapismo? Boomerata? Maturità? Si è rasato i capelli, compare in una copertina in bianco e nero insieme a una ballerina in costume vaudeville. Le canzoni presentano arrangiamenti d’altri tempi, spaziando senza un’apparente logica tra swing, big band Tin Pan Alley, pop anni ‘60, country, generi, o suggestioni, lontanissimi, appartenenti a un’altra epoca, a un altro secolo. E per quanto riguarda i testi, seppure non manchino pezzi di quella observational comedy a cui siamo abituati (Chlöe, Q4, We Could be Strangers), sono generalmente privi di quella feroce presa sul reale. “Now it’s like bad comedy”. Sono bozze, piuttosto, ricche di allusioni ma senza quell’ambizione di spiegare tutto, sé stessi e l’umanità (Pure Comedy, i 13 minuti di Leaving LA). Piu vicine a Fear Fun, piu oniriche, velocissimi cut cinematografici. La vecchia Hollywood del bianco e nero, della nascita del mito della star, celebrata in Fear Fun, la vecchia Hollywood dello Chateau Marmont (Chateau Lobby #4, o tutto God’s Favourite Customer), culla dell’intrattentimento (Total Entertainment Forever), mito fondativo a cui tornare (o causa di tutti i nostri mali, vista la posizione del nostro in materia di entertainment). Bozzetti quasi tutti d’amore, verso una figlia, una compagna, un gatto. Quasi tutti però hanno come centro emotivo la mancanza, l’abbandono, la morte. Amori finiti o quasi o svaporati subito. La perdita. La nostalgia, qualcosa di irreparabilmente rotto. La lingua è diversa, tranne qualche eccezione è quasi d’altri tempi, non ha quello sguardo sogghignante sui problemi del qui e ora, ma anzi si abbandona a domande generiche, esistenziali, quasi comiche nella loro potremmo dire ingenuità (relativamente, è chiaro, al cinismo di chi le sta ponendo). Buddy’s Rendezvouz, Goodbye Mr. Blue, forse la più straziante del disco, parla di un gatto, unico ricordo tangibile del suo rapporto con una donna. Muore anche lui, ci si riavvicina, si fa finta, ma è solo un attimo.
Mr. Blue è il gatto, ma è anche una canzone d’amore del ‘59, una di quelle canzoni che non si sa nemmeno chi le ha scritte, tante sono le bocche che l’hanno cantata negli anni. Una canzone d’amore che diventa patrimonio condiviso, fino ad arrivare a Bojack Horseman, dove lui e Diane capiscono quanto siano ormai irrimediabilmente lontani proprio con questo pezzo in sottofondo (nella versione di Catherine Feeny). Un pezzo sull’abbandono di una dolcezza e tristezza inseparabili. Forse è questo che ha cercato di ricreare FJM in questo disco. Una grazia. Visto come si sta mettendo, visto che il 21esimo secolo sembra uguale a quello precedente o peggio, mi tengo questa roba qua, che proprio in virtù del suo essere fuori dalla storia può avere una funzione consolatoria (e torniamo al rapporto con il pubblico). Mi tengo le canzoni d’amore e anzi ne scrivo alcune anche io, tornando al secolo scorso anche con la musica, agli anni ruggenti, ai Fleetwoods, a Henry Mancini, alle Paris Sisters, a Roy Orbison, alle Velvelettes, Serge Gainsbourg, Kinks, Shirelles, Nancy Sinatra, Harry Nillsson, Gloria Gaynor e via dicendo. Se la comic persona decide che ormai tutto è bad comedy, deve cambiare qualcosa del suo spettacolo. Che da stand up comedy si fa quasi varietà del sabato sera, vaudeville, con questo cambio continuo di registri e di “numeri”. Un po’ di satira, un po’ di virtuosismo, un po’ di lacrimoni. Soprattutto lacrimoni. È diventato difficile consolarsi sentendo un comico parlare, cambiamo formato. L’attesa per il suo prossimo special è appena iniziata.