Sempre più spesso, mentre cammino per strada, il ricordo limpido e largo di altre strade mi fa visita. Sempre più spesso, mentre cammino i miei passi si accavallano ad altri, le strade che percorro diventano quelle che ho già camminato. È una specie di fulminea ubiquità, con una sfumatura di pace. Strade di città in cui ho vissuto a lungo o per pochi mesi, strade viste solo una volta ma per qualche ragione indimenticate, oppure le strade di Napoli che sono casa mia. Mi sembra di accorgermi, mano a mano che il tempo passa, che tutti questi luoghi abbiano effettivamente scavato una traccia fisica in me, nei miei ricordi, come fossi un vinile. Anche le persone che incontro, i gesti e le risate che punteggiano una conversazione, si allungano improvvisamente in altri gesti e occhi e bocche, provenienti da altri tempi. Forse dovrei parlarne con un medico, magari è il sintomo di un disfacimento cognitivo, e invece mi sono convinta sia un cambiamento naturale nel modo di ricordare, una maturità della memoria. Siamo sempre pronti, o più che altro dovremmo essere preparati ai mutamenti del corpo, mentre di come viri inesorabilmente il paesaggio dei nostri mondi interiori non si parla granché. Come spesso accade nella vita o nei romanzi – che sono variazioni sul tema della continuità, in dialogo e scambio continuo – lo spazio aperto da questa osservazione è stato presto occupato da un seguito, una felice corrispondenza.
Ho finalmente letto Due vite di Emanuele Trevi e sin dall’incipit ho sentito risuonare nella voce narrante un’impersonalità densa, un distacco – a dispetto della materia trattata, dei ricordi personali legati alle vite di Rocco Carbone e Pia Pera – la stessa distanza che anch’io avverto rispetto al passato, una distanza che assomiglia molto più alla chiarezza che all’oblio.
<<Era una di quelle persone destinate ad assomigliare, sempre di più con l’andare del tempo, al proprio nome. Fenomeno inspiegabile, ma non così raro. Rocco Carbone suona, in effetti, come una perizia geologica. E molti lati del suo carattere per niente facili suggerivano un’ostinazione, una rigidità da regno minerale. A patto di ricordare, con i vecchi alchimisti, che non esiste in natura nulla di più psichico delle pietre e dei metalli >>.
Rocco Carbone è morto nel luglio del 2008 e questo incipit, assieme a vari stralci distribuiti lungo il “requiem” come qualcuno lo ha definito, definizione molto più calzante rispetto a romanzo – e anche più esatta dal punto di vista della composizione di memoir – era già apparso nella prefazione a Per il tuo bene di Carbone, uscito postumo nel 2009. Nella prefazione, una bozza inconsapevole di quello che sarebbe stato il libro vincitore dello Strega nel 2021, Trevi già delineava lo stile, ricco di speculazioni, e tratteggiava il carattere cupo e tormentato dell’amico:
<<Le Furie che lo braccavano da quando era al mondo, fra tregue e nuovi assalti, prosperavano nel manierismo, nella complicazione, nell’incertezza delle forme e dei loro significati>>.
In quella bozza inconsapevole faceva già capolino Pia Pera, che sarebbe scomparsa nel 2016. Nel ritratto della “breve vita infelice” dello scrittore, dotato di un talento per l’amicizia, a portare una nota di placida femminilità nel ricordo di una mattina d’estate a Parigi, al Musée d’Orsay, quando “la vita pareva ancora nasconderci qualche promettente segreto” e Carbone sperimenta una rivelazione estetica al cospetto dell’Origine del mondo di Courbet, è proprio Pera: «la nostra adorata Pia, che quando eravamo tutti e tre insieme spendeva sempre una discreta parte delle sue energie per far sì che non iniziassimo, io e Rocco, a litigare per i soliti futilissimi motivi».
Sorridente e luminosa in una foto con Trevi scattata da Carbone e inserita nel testo, Pia Pera entra in scena con la grazia di chi si arrabbia moltissimo per i vizi delle persone cui vuol bene, ma è disposta a riconciliarsi con la vita se può intavolare “una lunga, musicale conversazione su Gogol” con uno sconosciuto contrabbandiere ucraino in una fredda notte romana.
<< Inspiegabilmente, alla fotografia si associa l’idea dell’”immortalare”, ma è un modo di dire sbagliato, non c’è nulla che più che la fotografia, in un modo o nell’altro sempre vincolata all’attimo e al presente, ci ricordi la nostra transitorietà e futilità. Come l’angelo con la spada infuocata (il più incazzato e inflessibile degli angeli) il tempo ci sbarra ogni via del ritorno a quel paradiso terrestre che vediamo nelle fotografie, trasformando ogni gesto e ogni presenza nell’emblema di una caduta inarrestabile >>.
Questo è un libro impregnato di tempo: stilla tempo, come tutta la letteratura. Prima parlavo di distanza, ma non ricordavo che Trevi adottasse proprio questo termine per definire l’operazione letteraria che va compiendo, l’ho ritrovato scorrendo le pagine: «L’unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti è cercare la distanza giusta, che è lo stile dell’unicità».
La sensazione è che l’io narrante, e per estensione l’Io, possa esperire come effetto del passaggio del tempo e mollando la presa per estenuazione sui molti drammi connaturati alla sua natura insaziabilmente egocentrica e piagnona, una sorta di salvifica fuga dall’umano. Una minerarietà, un salto nell’inerte psichismo del mondo minerale e dei cristalli, come il nome Rocco Carbone annuncia sin dalle prime righe. O un approdo per l’accudimento di altri esseri, come accade a Pia Pera nei suoi ultimi anni, rifugiatasi in un casolare, quasi a confondersi con il suo giardino e quasi del tutto assorbita dalla cura delle sue piante. O ancora, come per Emanuele Trevi alle prese con Due vite: l’accettare di farsi canale. Perché il morto «è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che usiamo di lui, e si manifesta di sua propria volontà, non siamo noi che pensiamo a lui, è proprio lui una buona volta».
Dirò una cosa che non andrebbe detta, perché una recensione non può sbrodolare ammirazione, suggerirla sì, ma non riversarla senza contegno come sto per fare: il primo racconto che ho letto di Trevi si trovava in una raccolta scialba, forse curata da Ammaniti. Ero al quarto o quinto racconto e mi aspettavo di procedere sulla linea insulsa su cui si stava attestando il meglio della giovane narrativa italiana, quando fui folgorata da un racconto su Tifone di Conrad. Confesso di non ricordare esattamente come e perché Trevi si spingesse in una critica meravigliosa di quel Conrad, e sospetto che a cornice vi fosse dell’altro, ma non ho dimenticato la sensazione di forza, la consapevolezza di stare leggendo un fuoriclasse. Ho ritrovato quella sensazione anni dopo, leggendo Sogni e favole.
Sogni, e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole, e sogni orno, e disegno,
io lor, folle ch’io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango, e mi sdegno.
I versi di Metastasio che tornano e tornano in Sogni e favole: è tutto lì, nero su bianco, il trucco di un’immaginazione densa e magica.