Una notte al Cocoricò, una figuraccia che a diciassette anni non si riesce a digerire e poi l’alba a fare colazione con un caffè buttato giù senza nemmeno mangiare, con solo qualche cocktail in corpo. Alle sette di mattina del 16 agosto del 1991, Daniele lascia gli amici dopo la notte in discoteca per incamminarsi in un viaggio di due settimane in solitaria, con una valigia verde al seguito e una lunga strada da percorrere solo con l’autostop, dall’Emilia Romagna ai Castelli Romani. Daniele è l’alter ego di Daniele Mencarelli, poeta e scrittore, che con “Sempre tornare”, edito da Mondadori, chiude la sua personale trilogia di romanzi dopo anni dedicati alla poesia; una trilogia al contrario che ha visto il suo culmine in un romanzo irripetibile, “Tutto chiede salvezza”, finalista al Premio Strega del 2020 (“Tutto chiede salvezza” diventerà anche una serie tv per la regia di Francesco Bruni e prodotta da Netflix). Quella di Mencarelli è una trilogia personale soprattutto perché ciò che racconta è la storia sua, del ragazzo che è stato e dell’uomo che è diventato dopo una profonda e violenta crisi personale. È di questa crisi che conosciamo i dettagli complessi in “Tutto chiede salvezza”, il secondo della trilogia, storia di sette giorni in un ospedale psichiatrico a seguito di un TSO; mentre è più esistenziale e accelerata dall’abuso di alcool “La casa degli sguardi”, il primo romanzo, quello dedicato a un Daniele più adulto in transizione verso la vocazione per la poesia. In “Sempre tornare”, come si diceva, Daniele è un adolescente già pieno di domande che affronta il primo viaggio senza la famiglia, ebbro di una libertà transitoria, due sole settimane, ma già preziosissima per lui. E quello che progetta nella sua mente è un «viaggio per capirsi», per trovare il bandolo della matassa che lo stringe e lo soffoca.
Ogni giorno nel mio petto esplode un duello, sempre lo stesso. Un duellante si chiama tutto. Il suo avversario niente.
A fine lettura la tentazione di definire Daniele un unicum sarà grande, come se il travaglio interiore di un adolescente fosse cosa rara e raccontarla in un romanzo la rendesse ancora più epica. La verità è che non solo Daniele è un adolescente come tutti, più sveglio di altri magari, ma capace di raccontare il travaglio di molte e molti, alla ricerca di una identità nel 1991 così come la cercano in tanti suoi coetanei nel 2021. Ma Daniele è di più anche per chi ha lasciato l’adolescenza da un pezzo e pure vaga irrisolto alla ricerca di un senso profondo, di risposte e di conforto. Soprattutto chi si affida alla maestria di Mencarelli e la sua trilogia, troverà non risposte, ma altre domande e cieca comprensione, la stessa che Daniele condividerà con tutti i personaggi che incontra nei tre romanzi. Perché, sorprendentemente, questi sono romanzi corali, riguardano Daniele, ma non solo lui e descrivono con rara sensibilità una umanità dimenticata, sofferente, eroica al contrario e di commovente dignità, pure nella totale e catastrofica imperfezione.
Daniele parte a caccia di risposte e bellezza e ne troverà sulla strada, nei tramonti della campagna, tra le albe a dormire nella rugiada che lo infradicia, negli occhi di un cane, di una coetanea e in quelli di tutti coloro che incontrerà sul suo cammino. La natura costituisce un punto fermo per il giovane protagonista, lo stupisce con grazia e lo distrarrà dai pensieri intrusivi e dolorosi sul futuro. Mencarelli, però, non vuole dimostrare come nasce un uomo, ma piuttosto come nascono le domande inevitabili, le relazioni con le persone sul proprio cammino e la speranza anche nei momenti più sconvolgenti, e lui ne vedrà molti. Le relazioni, in particolare, sono presenti anche negli altri due romanzi della serie, ma in “Sempre tornare” assumono contorni più sfumati e fugaci; l’intera meraviglia di Daniele si concentra sulla capacità di fraternizzare, nella maggior parte delle volte, anche se, solo qualche ora prima, non si sapeva nulla dell’altro. Le persone che incontra sono vittime di tante solitudini diverse, la maggior parte garbate, non per forza tristi. È la dimensione avventurosa dell’autostop a far macinare incontri e scontri, ma anche lo spirito naïf di questo personaggio che sboccerà più avanti. Ma la ricerca del senso, quella c’è sempre. In fondo si insegue «la possibilità di capire» e per agguantare quel senso, almeno per un momento piccolo e luminoso, Daniele naviga il senso di colpa, l’invidia, la mancanza e una forma primordiale di libertà che a diciassette anni sembra il traguardo di una vita. Daniele indaga anche il suo rapporto con Dio, uno dei nodi centrali della ricerca letteraria di Mencarelli, e il dolore dell’anima invadente e continuo, ma ancora indefinito in questa parte della storia, tanto da fargli dire: «Un giorno saprò se la mente che mi ritrovo […] è un dono della natura o una malattia con un nome […].» Ma di malattia Mencarelli ha parlato abbondantemente, adesso non è più il tempo. Questa è anche la peculiarità della trilogia a ritroso: si parte dal dolore estremo e si approda, con questo terzo romanzo, a una “pace” relativa eppure genuina, fatta di viaggio e di scoperta, forse per l’urgenza di esplorare quel dolore nella sua manifestazione esplosiva e solo dopo andare a indagarne le radici.
Ci sono riflessioni che solo un poeta sa scrivere, ci sono personaggi e abissi del sé che solo Mencarelli sa rendere visibili. Questo è ciò che ho imparato dai tre romanzi. “Sempre tornare” non è “Tutto chiede salvezza”, lo dico con un rispetto profondo e un affetto infinito per il personaggio, ma è la giusta conclusione di un circolo all’incontrario in cui si scoprono le fondamenta quiete di un male di vivere mesto, silenzioso e più comune di quanto si pensi.
Questo dolore, il mio dolore, è più grande di me.
Ha secoli. Millenni.
Non so perché mi abbia scelto.