Questo paese è diviso in due: quelli che hanno paura e quelli che provano rabbia. Voi, borghesi, siete quelli che avete paura. Paura di perdere i vostri gioielli, i vostri orologi costosi, i vostri cellulari. Paura che violentino le vostre figlie. Paura che sequestrino i vostri figli. Paura che vi uccidano. Vivete prigionieri della vostra paura. Rinchiusi nelle vostre auto blindate, i vostri ristoranti, i vostri locali, i vostri stupidi centri commerciali. Trincerati. Terrorizzati. Noi viviamo con rabbia. Non possediamo nulla. Le nostre figlie nascono violentate. I nostri figli, sequestrati. Nasciamo senza vita, senza futuro, senza niente. Però siamo liberi perché non abbiamo paura.
José Cuauhtémoc Huiztlic. Detenuto 29846-8. Condanna: cinquant’anni per omicidio plurimo
Marina Longines è una coreografa appartenente all’alta società messicana. Vive in un quartiere residenziale presidiato ventiquattr’ore su ventiquattro dalla sorveglianza armata, è sposata con Claudio, finanziere di successo internazionale, ha tre figli, una cameriera, una vita tranquilla che scorre sui binari di una sonnolenta soddisfazione. I suoi migliori amici – Héctor e Pedro – sono una coppia del jet set di Città del Messico. Héctor è un regista di opere provocatorie di grande successo – in realtà un borghese che ha ereditato l’industria del carbone dalla famiglia e gioca a fare l’enfant terrible; Pedro, un affascinante mecenate che qualche anno prima non ha rinunciato a una brevissima e scanzonata relazione con l’amica Marina. È proprio Pedro, che una sera, dopo una cena, propone a Marina un’offerta che le cambierà la vita: portare la sua compagnia – Danzamantes – tra i detenuti di massima sicurezza del Reclusorio Oriente.
Lì, infatti, nome di spicco del laboratorio di scrittura creativa del carcere, c’è José Cuauhtémoc Huiztlic Ramírez, alle spalle una condanna a quindici anni per l’omicidio del padre – bruciato vivo su una sedia a rotelle – e attualmente detenuto con una condanna a cinquant’anni per un duplice omicidio maturato negli ambienti legati ai cartelli del narcotraffico. Quest’uomo affascinante dall’«aspetto europeo ma sangue indio» – colto e selvaggio – sconvolgerà, infatti, la vita di Marina innescando una serie di eventi che non lasceranno alcuno spazio al ritorno sui propri passi.
Ogni parola ostenta un peso unico. Non ce n’è nessuna che la sostituisca. I sinonimi non esprimono la stessa cosa. Sono approssimazioni, non sono quella parola.
Al suo sesto romanzo – ricordiamo, tra gli altri, Il bufalo della notte (Fazi, 2014) e Il selvaggio (2018, Bompiani), Premio Mazatlán de Literatura 2017 – Guillermo Arriaga, messicano, classe 1958, già sceneggiatore della Trilogia della Morte di Alejandro González Iñárritu (Amores Perros, 2000, 21 grammi, 2003, Babel, 2006), vincitore a Cannes della Palma per la miglior sceneggiatura con The Three Burials of Melquiades Estrada di Tommy Lee Jones, quindi a sua volta regista con The Burning Plain del 2008 – ci porta per mano all’interno di un’opera mastodontica – 850 pagine – attraverso la quale ci spalanca le porte della complessità del Messico contemporaneo.
Salvare il fuoco (edito da Bompiani) è un romanzo polifonico, nel quale Arriaga tiene magistralmente sotto controllo almeno tre linee narrative diverse: infatti, oltre alla trama principale – legata all’incontro tra Marina e Cuauhtémoc – lo scrittore messicano ci conduce nei meccanismi dei cartelli del narcotraffico con la vendetta del Macchina – una volta miglior amico di José – quindi nei dialoghi continui tra Francisco, fratello di José e la memoria, il ricordo del padre – Ceferino – autorevole antropologo indio la cui educazione, i cui principi, la cui durezza hanno, evidentemente, avuto un ruolo nella crescita e nello sviluppo di un pluriassassino, certo, di un parricida, ma anche di un uomo dotato di un talento impressionante per la scrittura nella quale riversa in maniera ossessiva i tratti di una personalità complessa e viva, un coacervo di violenza, fuoco, passione, desiderio e – a suo modo – di princìpi e sentimenti cui resta fedele – spesso contro il suo stesso vantaggio – che travolgono la vita spenta e borghese di una donna che da quella stessa vita non sapeva più cosa cercare.
Se, dunque, al centro del romanzo c’è una storia di passione prima, di amore poi, e un amore tale da rischiare tutto – la propria vita, la famiglia, i figli, la reputazione del proprio ambiente, le proprie certezze – sull’altare di un desiderio mai provato prima, di una sessualità finalmente libera e disinibita, di un fuoco – appunto – che non è soltanto l’elemento che, divampando, distrugge ma anche la fiamma che concede la vita, che illumina e purifica, Arriaga sa svelarci in trame nascoste dietro questa impalcatura che mescola senza pesantezze o indulgenze il melò al noir, le dinamiche politiche e sociali del Messico odierno e non solo.
Questa prigione in cui sono rinchiuso non è la mia prigione. Queste pareti, queste sbarre non sono la mia prigione. Questi secondini stronzi, queste celle strapiene non sono la mia prigione […] La mia prigione è là fuori, che bacia altri, che passeggia con altri, che scopa con altri. La mia prigione mangia, respira, sogna senza di me. Lei, e soltanto lei, è la mia prigione.
La storia tra Marina e José è, certamente, la cartina di tornasole che permette di mostrare un paese spaccato in due, come nel manifesto dal carcere di Cuauhtémoc tra i modi borghesi della classe dominante – è citato a un certo punto il quartiere Roma, non a caso quello del film di Iñárritu che pure mostrava il solco che da sempre divide la società messicana, come gran parte delle società centro e sudamericane – e quella di una fascia molto più ampia della popolazione costretta a vivere – spesso – sotto la soglia di povertà, un mondo oscuro e celato alla vista delle belle case della classe sociale che produce la leadership del paese.
Ma è, soprattutto, nei lunghissimi corsivi di Francisco Cuauhtémoc – la cui identità sarà rivelata verso il finale del libro quando, suo malgrado, diventerà personaggio della storia e non solo voce narrante e riflessiva di un passato lontano – che si rivolge al padre scomparso ricostruendo narrativamente il percorso di José e – insieme con questo – la vita tormentata di un uomo, del loro padre, un indio che era arrivato a occupare non solo una cattedra all’università ma un posto di rilievo nella cultura del suo intero paese, votato a una sensualità ossessiva e sprezzante nei confronti della moglie spagnola – metafora perfetta di una vendetta sottile e continua, di un contrappasso in cui gli emarginati, i vinti provano a riprendersi ciò che i conquistadores gli hanno strappato per sempre – che Arriaga amplia il suo sguardo, seguendo una sottile linea rossa che risale la spina dorsale del tempo alla ricerca delle radici della violenza messicana.
Nell’opera di uno scrittore dotato di talento puoi scoprire una frase, una sola, che ti cambia la vita. In uno scrittore mediocre il massimo che potrai trovare è correttezza grammaticale.
Violenza che, invece, si esprime in tutto il suo potenziale, in tutti i paragrafi dedicati alla guerra del narcotraffico, che s’interseca ripetutamente con la linea narrativa principale. Ed è qui che Arriaga fa un lavoro enorme, in parte riprodotto – nei limiti del possibile – dalla traduzione di Bruno Arpaia attraverso una koinè derivata da più di un dialetto e di uno slang italiano, sulla lingua di Salvare il fuoco: il Macchina, come anche gli altri personaggi del mondo della criminalità parlano, infatti, una lingua spuria, uno spanglish costantemente contaminato di espressioni gergali, rimodulate per dare maggiore forza, una lingua, veloce, sporca, tagliente, usa e getta che trasuda urgenza e violenza, dentro vite appese a un filo, dove il nocciolo di una violenza arcaica e selvaggia si mescola con le armi, le auto, le dinamiche di un mondo sempre più smart ed efficiente.
Arriaga – ed è certamente il merito maggiore di Salvare il fuoco – riesce a tenere sotto controllo una materia assolutamente incandescente e, nello stesso tempo, potenzialmente ingestibile. Salvare il fuoco mescola sapientemente piani narrativi, alterna passato, presente e futuro, gioca con i registri linguistici, non fa mai un passo indietro rispetto alla crudezza delle espressioni, dei sentimenti, dei gesti.
Ecco allora che Cuauhtémoc si staglia come una figura letteraria potentissima da cui è davvero difficile non restare affascinati, e non perché non si possa esprimere su di lui un qualsivoglia giudizio morale – tutt’altro; ma perché la coerenza che sottende le sue azioni, la determinazione nei suoi sentimenti e negli istinti più puri e drammaticamente umani, ne fanno una specie di lama di diamante capace di tagliare in due, di squarciare il velo di ipocrisia della società che domina il Distrito Federal.
A chi mi chiede che cosa salverei della mia casa, se bruciasse, rispondo: il fuoco.
Jean Cocteau
In Salvare il fuoco – come nell’epigrafe splendida di Jean Cocteau – tutto brucia, tutto è avvolto dalle fiamme, e Arriaga sembra quasi suggerire che solo quelli che sono capaci di attraversarlo sono, poi, in grado di riconoscere se stessi, senza maschere, senza ipocrisie, senza il velo di circostanza dietro cui si nasconde l’elite culturale del paese.
In fondo Arriaga, nonostante il successo – cinematografico e letterario – resta il ragazzino che ha perso l’olfatto a tredici anni per una brutale rissa in strada, che ha detto «può anche darsi che io abbia lasciato la strada ma è la strada a non avermi mai abbandonato» e che ama definirsi «un cacciatore che fa lo scrittore».
Mi nutro di sangue e vita. Nelle mie viscere galoppano animali. Sento dentro di me i loro zoccoli al trotto. Io sono anche loro. Chi rumina soltanto vegetali non percepisce dentro di sé il fragore delle fughe precipitose.
E molto della sua poetica ha a che fare con la caccia, quello che lui definisce un «rituale molto profondo che mette a confronto la vita con la morte, la bellezza con l’orrore. La caccia avvicina alla verità delle cose» e – fuori dalle considerazioni, lecite, va da sé, sulla sua filosofia alla Deer Hunter – che pure uccide solo ciò di cui poi si ciba – nella sua opera e, in particolare in questo Salvare il fuoco, che per mole e densità sembra poter rappresentare una summa di un certo suo approccio alla vita, il senso della caccia resta intatto, e si acuisce addirittura nei rapporti fra gli esseri umani.
Cuauhtémoc è in fondo questo, un essere umano forgiato dal padre per sopravvivere, allevato attraverso una disciplina severissima, da un senso altissimo del sacrificio e della morale che – ferito – si ribella all’ordine costituito. Un uomo che scende quotidianamente a patti con la sua natura animale, con il suo essere predatore e – in gran parte del romanzo – possibile preda. La sua è una mascolinità ferina, certo, non lontana da quella di un maschio alfa, eppure fedele a un suo codice, un codice che passa attraverso la sola natura dei suoi istinti. La sua non è una letteratura per salotti, è uno sguardo nelle profondità del male, è la rappresentazione di un perturbante arcaico che distrugge le velleità del mondo borghese, il suo sesso è selvaggio, dirompente, la sua è una caccia senza regole attraverso il corpo della donna, è l’esplorazione di un mondo, è, soprattutto la liberazione dalla maschera di una società che fuori dal suo personaggio – appare – il più delle volte molle, debole, corrotta, collusa e decadente, in cui il male è compiuto in maniera subdola con le armi del capitalismo, della cultura e del progresso e non riesce più a guardare in faccia al suo aspetto primigenio e alla sua natura – come appare nella parabola della storia – violentemente rivoluzionaria.
Eccomi là, seduta sul mio letto con un vestito leggero di seta nero a fiori e scalza. Mi misi perfino due gocce di profumo sul collo e due all’inizio della scanalatura dei seni. I rapporti si costruiscono con momenti invisibili all’altro e dei quali non saprà mai nulla.
Ecco allora che Salvare il fuoco rimette al centro del discorso – sociale ma anche politico – il corpo, attraverso la danza – lo spettacolo che Marina porta in carcere mette in scena il mestruo femminile con il titolo straordinario di Nascita dei morti, attraverso il corpo violato per eccellenza, quello degli uomini privati della loro libertà e sottoposti a ogni tipo di sopruso nelle carceri messicane come in quelle di tutto il mondo, il corpo del padre – cui non solo metaforicamente – Cuauhtémoc dà fuoco, quello degli amanti. Un corpo «motivo di celebrazione e allo stesso tempo vittima degli eccessi» come dalle motivazioni della giuria del Premio Alfaguara 2020 presieduta da Juan Villoro.
A quello non ero preparata. Neanche remotamente. La probabilità non era stata registrata dal mio cervello da avventuriera borghese. Certo, benvenuta l’avventura, ma delimitata. Sono belli i leoni quando sono dietro il vetro. Fanno venire il panico quando scappano.
Il corpo, infine, di Marina Longines che ascoltandolo, e sentendolo finalmente, mette a tacere l’inutile iperbole della sua verbosità borghese, permettendosi quello scarto verso il proprio desiderio, assumendo su di sé tutto il rischio di salvare, dal suo mondo in fiamme, la sola cosa che le serve per diventare se stessa e finalmente cominciare a vivere: il fuoco.