E non è facile disfarsi di quella goccia di fantasia che scintilla per meno di un secondo eppure mantiene lo stato del desaparecido. Mia mamma era desaparecida. Ora non più.
Spagna, settembre 2010. Una telefonata raggiunge Marta Dillon in vacanza con la compagna Albertina (la regista e sceneggiatrice Carri) e il loro figlio Furio. Quella telefonata proviene dall’EAAF – l’Équipe Argentina de Antropología Forense, un’istituzione scientifica senza fini di lucro nata nel 1984 per identificare i corpi sepolti nelle tombe di NN o in fosse clandestine, dove si supponeva potessero essere state nascoste le persone scomparse nel corso della dittatura – ed è una telefonata che pone fine a un silenzio durato ben trentaquattro anni, da quando sua madre, Marta Toboada, avvocata, militante nel Movimiento Revolucionario 17 de Octubre veniva sequestrata nell’autunno del 1976 per essere giustiziata probabilmente due mesi dopo in un’esecuzione privata, lontana dall’incrocio in cui – secondo la falsa ricostruzione della polizia – sarebbe stata freddata durante uno scontro a fuoco. Quella telefonata annunciava la scoperta attesa per così tanto tempo: i suoi resti erano stati finalmente ritrovati.
È partendo da quello svelamento che Marta Dillon costruisce Aparecida che, fin dal nome, racconta una storia la cui scoperta finale non coincide del tutto con la possibilità di un’automatica elaborazione del lutto, anzi è solo la scintilla che costringe l’autrice a confrontarsi coi tanti demoni del passato.
Figlia lo sarò per sempre, ma se ancora cerco qualcosa, tre anni dopo, è di appropriarmi di quei resti. Scrollarmi di dosso una volta per tutte quell’ultima brace su cui soffiamo insistenti per far ardere finalmente la fiamma che potrebbe renderci liberi. Per farle prendere vita, farle prendere corpo, perché qualcuno dica qualcosa, trasmetta la sua voce, cosa hanno visto i suoi occhi, come fu la sua brevissima vita lontano da noi. In definitiva e al singolare: per restituirla. L’illusione che ci sia sempre qualcosa in più da sapere o da cercare e non volerlo cercare né chiedere perché non si esaurisca, perché non si spenga la brace: questo è essere figlia quando tua madre è desaparecida.
Di formazione giornalista – ormai di lungo corso – Dillon dal 2002 dirige il supplemento femminista Las 12 di Página/12 dopo aver diretto per quattro anni LGTBQ Soy, per lo stesso quotidiano, dedicato alla diversità sessuale e di genere. È membro – dalla sua fondazione – di Hijos (1995, Hijos e Hijas por la Identitad y la Justicia contra el Olvido y el Silencio) che riunisce i figli dei desaparecidos o di ex prigionieri politici ed esiliati e, da tempo, è al centro dei percorsi politici e di protesta della vita culturale del suo paese (è tra le promotrici del movimento #niunamenos contro la violenza alle donne e il femminicidio).
Esponente della cosiddetta quarta e ultima linea estetica della narrativa argentina sulla dittatura, Marta Dillon non è certo nuova all’autofiction, avendo pubblicato nel 2004 il libro Vivir con el virus che racconta della sua esperienza di contagiata di HIV.
Pubblicato in Argentina nel 2015, Aparecida mantiene uno stretto contatto con quella linea narrativa, ponendosi come vera e propria elaborazione del lutto, privata e collettiva. Del resto, nella narrazione dei desaparecidos non solo da sempre si mescolano pubblico e privato – la rivendicazione di una qualche forma di giustizia comune con il sentimento dell’assenza coltivato nella propria intimità – ma è la stessa letteratura che ha, da sempre, avuto un peso nella costruzione di quell’immaginario: del resto nel 1984 la Commissione Nazionale sulla desaparicion di persone fu presieduta proprio dallo scrittore Ernesto Sabato, gettando le basi per una storia che aveva la necessità – in maniere e tempi diversi – di essere raccontata per sopravvivere.
Così si va avanti nella ricostruzione della zona scomparsa: come nel gioco dell’oca, si avanza di alcune caselle e si retrocede di altrettante. Quando il desiderio di sapere si fa urgente, il dado ti fa spostare in avanti. Un breve successo è sufficiente. Poi torna il silenzio, la vita quotidiana, il trascorrere degli anni.
Cosa vuol dire avere un familiare desaparecido? Quali i conti che restano in sospeso rispetto a una tragedia avvenuta nel passato ma che accompagna in maniera costante i giorni del presente? Cosa resta della memoria là dove non si ha un corpo da piangere, da seppellire, con cui scendere a patti, attraverso cui scontrarsi con il dolore di una realtà inaccettabile?
Non va dimenticato come il primo testo della letteratura – L’Iliade di Omero – dedica, nei suoi ultimi canti, pagine indimenticabili sul significato profondo della restituzione del corpo di Ettore. La perorazione di Priamo ad Achille da una parte, l’elogio funebre dei suoi cari dall’altra, sono alla base di una concezione storica e letteraria del dolore. Ma anche politica.
Sono tutti, questi, tratti che si ritrovano nella lunga confessione di Marta Dillon che mescola autobiografia e biografia familiare, reportage giornalistico e finzione tout court e che sa tenere insieme materiali eterogenei in uno spettro espressivo che si muove dai referti scientifici alla poesia. Un racconto che si fa specchio autentico e funzionale di una tragedia privata e nazionale. Ne sono metafora in qualche modo i ritrovamenti nelle fosse comuni, dove solo il lavoro dell’EAAF è in grado di separare – come attraverso un setaccio – l’appartenenza di un osso a un viso su una foto i cui colori sono stati stemperati dal tempo come la memoria di chi – spesso bambino – non ha avuto tempo a sufficienza perché le immagini impressionassero a lungo le proprie retine. Come una scena bellissima del libro in cui Dillon prova a districare gli abiti ritrovati nella fossa alla ricerca della maglietta blu di sua madre, ricomponendo su un tavolo una sorta di geografia del dolore e della memoria, con una polvere che tutto copre e tutto confonde finendo col non concedere la possibilità di una vera separazione tra corpi ormai indivisibili; vite magari separate, unite nelle poche settimane di un’atroce comune prigionia eppure testimoni di abbracci come tra sorelle e fratelli così resi da quegli anni di forzato riposo senza nome e senza pace comuni, per questo padri e madri di hijos stretti tra loro in attesa di un riconoscimento comune.
Schegge di una vita. Scintillio d’avorio spogliato dagli uccelli necrofagi in aperta campagna. Lì dove si arriva quando si va a fondo, fino all’osso. Quello che rimane quando ciò che nel corpo continua ad accompagnare il tempo si è fermato, il gonfiore dei gas, il gocciolio dei fluidi, il banchetto della fauna cadaverica, l’andirivieni degli ultimi insetti. Poi, le ossa. Scricchiolio di ossa, sacchetto di ossa, ossa scarnificate senza nulla da sostenere, né un dolore da ospitare. Come se mi dovessero un abbraccio. Come se fossero mie. Le avevo cercate, le avevo aspettate. Le volevo.
Il rapporto tra pubblico e privato è uno degli elementi cardine del libro. Marta Dillon è bravissima nel raccontare una storia personale e familiare che declina – soprattutto al femminile – i termini di un’attesa e una ricerca che nascondono un fil rouge che ne ha condizionato l’intera esistenza. La sua prosa ora intensa e dolce, ora aspra e aggressiva sa condurci dentro i meandri di un cammino spezzato, profondamente segnato da un peccato originale, da un’assenza inspiegabile e silenziosa, dalla mancanza di un confronto, da un metro sul quale misurarsi per crescere, dentro un dramma come si diceva nazionale, che però non può lenire la tragedia intima di una famiglia – Dillon torna spesso sulle diverse reazioni e sui percorsi segnati dei suoi fratelli – improvvisamente toccata dal male di Stato.
Mi sveglio abbracciata a mio figlio, siamo aggrovigliati, gambe, braccia, il suo respiro regolare sul mio petto, il mio naso tra i suoi capelli. Dormivo così con mia figlia quando era piccola; siamo cresciute così, intrecciate. La mia maternità è corpo a corpo. Il respiro della mattina, il sudore della notte, la bava dei bocconi che non ingoiano, il sangue sulle ginocchia, le molliche tra le lenzuola, le cispe, il moccolo, il sale degli occhi; il solletico e le lotte. Il linguaggio dell’amore non si parla, si incide. È questa poesia materiale che ho imparato da mia madre.
L’altro tema forte del libro, va da sé, è il corpo. Poche volte si affrontano pagine così densamente abitate da corpi, poche volte i rapporti umani nelle loro dinamiche di amore e odio poggiano così tanto sulla corporalità. Quasi che l’assenza del corpo della madre abbia innescato – in questa figlia ribelle e libera – una fame di corpi insaziabile: il corpo della madre certo, ridotto a poche semplici ossa e allora rivestito di abiti e ricordi – in un passaggio meraviglioso, guardando una vecchia foto, si domanda quanti anni si debbano avere perché l’avambraccio di una madre misuri esattamente la schiena della propria figlia – il corpo dei due figli, Furio e Nanà, a sua volta madre, quello della compagna unito nella passione come nella complicità e nell’indispensabile comprensione di un porto, quello – complesso – dei fratelli, quello con i dottori dell’Istituto Forense capaci di rassicurare con un abbraccio.
Mi sono sposata sanguinando. Non potevo rovinare con nessun assorbente la bella biancheria intima con la parola “sexy” ricamata con brillanti finti che si infilava alla base della mia schiena. Ho lasciato che la scia rossa delle mie mestruazioni si mescolasse con il vino versato. È stata una grande festa.
Marta Dillon racconta con il suo Aparecida una storia precisa: la sua. Che non può essere la storia degli altri figli ma che con quelle storie s’interseca come i resti di sua madre a quelli degli altri. Aparecida è una storia di fantasmi, di assenze che imprimono un marchio e di riapparizioni improvvise che destabilizzano. È forse l’ultimo peculiare aspetto del libro questo: nel percorso sospeso verso l’elaborazione del lutto, percorso che necessità del corpo ancora una volta, del cadavere freddo, cui appigliarsi per compiere la parabola tra l’impossibile che si verifica e un sano principio di realtà Marta Dillon sembra raccontarci una frattura che non può ricomporsi, segnalando il destino ineluttabile di orfana. Ecco allora che la testimonianza del ritrovamento più che aprire alla possibilità di una cesura col passato, a quel passato rende giustizia e offre un senso, perché segno tangibile di una vita che c’è stata. In contrasto con l’abitudine, l’apparizione degli scomparsi arriva a scompigliare le carte, a sconvolgere un’esistenza, come una richiesta di lutto tardivo, come a esigere un dolore e una sofferenza fuori tempo massimo eppure onnipresente. L’aparecida del titolo è – soprattutto nella sorpresa dell’annuncio iniziale – una spada che divide, non un elemento che unisce, metafora in fondo di un paese che quella frattura non l’ha davvero potuta ricomporre – almeno non con i suoi protagonisti – è un gesto in qualche modo di pietas che richiede ed è richiesto, che spalanca l’orizzonte su un tempo per ripensare e ripensarsi.
E il viaggio che Marta Dillon compie nelle bellissime pagine di questo libro è proprio questo: quello di donna che si volta indietro alla ricerca di se stessa bambina, costretta a confrontarsi con l’assenza, scoprendo il suo percorso straordinario di donna, dentro una storia se possibile di ferocia nel suo senso più nobile, quello di una donna capace di rispondere – spesso con allegria, con gioia, con libertà – alle avversità del proprio cammino; è in fondo un inno a una vita che nonostante tutto è costretta dalla sua stessa natura semplicemente a vivere.
Dopo il Cile di Nona Fernandez, il Messico di Julián Herbert e il Perù di Joseph Zárate, Aparecida è il quarto tassello della collana diagonal della casa editrice gran vía, nata con l’intento di dare spazio a testi ibridi, meticci, obliqui, che presentano una commistione di generi e linguaggi letterari, capaci di attraversare “diagonalmente” i molteplici strati della letteratura latinoamericana. Aparecida è così non solo l’immersione nel grande rimosso argentino ma anche – e soprattutto – il ritratto di una donna a un tempo fragile e forte, spaventata e coraggiosa, determinata e onesta.