[Prospettive inattuali contro la cultura della normatività]
“Abbiamo ormai imparato che non esiste solo l’amore romantico, ma che esistono tanti tipi d’amore, e che li sperimentiamo tutti in maniera diversa. Abbiamo imparato anche che amare non è solo provare un sentimento bensì un’azione deliberata, e che le possibilità di compiere quest’azione sono largamente influenzate dalle condizioni sociali e politiche in cui viviamo” (112).
In molti ultimamente abbiano avvertito un forte vento di cambiamento nell’aria, che riverbera fortemente anche dalle nostre parti. Ciò è dovuto in parte al fatto che l’hic et nuic del discorso si sia trasferito globalmente sullo schermo del nostro computer, che nell’anno pandemico è diventato l’equivalente di una sconfinata piazza transnazionale in cui i discorsi si rimescolano in tempo reale e possiamo essere coinvolti virtualmente in una discussione che si apre a Los Angeles la mattina, continua a Londra nel pomeriggio e si conclude a Torino la sera. I nostri corpi si smaterializzano per essere assorbiti dal vortice digitale delle idee e quando i nostri avatar tornano ad allinearsi con la nostra persona fisica ne siamo tutti un po’ cambiati, evolvendoci in direzioni affini e coincidenti.
Chissà che non sia stata proprio la pandemia a completare il processo di globalizzazione delle idee in corso da decenni, e che questo processo si riveli non essere necessariamente negativo. Una trasformazione palpabile si percepisce, com’è ovvio, soprattutto a livello culturale. Ma non parlo di cultura alta nel senso tradizionale, come ho anticipato nella scorsa rubrica, perché le librerie accolgono spesso idee che primariamente circolano nella rete. Anzi, è più facile che questa rivoluzione si traduca nella cultura mainstream che in quella ufficiale, per esempio nei discorsi pronunciati da Fedez sul palco del concerto del Primo Maggio, che hanno ripreso quelli di Achille Lauro a Sanremo, finendo quindi per passare dai social network e dalle piattaforme di streaming direttamente, anche se non senza alcune difficoltà, alla televisione generalista.
In questi contesti si è reso evidente che la sfida principale dell’inclusione si costruisce sulla possibilità di riuscire a tenere separati anche nel nostro paese i discorsi che riguardano l’identità di genere – individuando una dimensione di cittadinanza neutra che si opponga alle classificazioni binarie di maschile e femminile – da quelli che hanno al centro l’identità sessuale, senza sottovalutare la necessità di tenere a fuoco le sovrapposizioni e le implicazioni reciproche di questi due ambiti. Ancora più importante è riuscire a colmare il vuoto che si apre tra le modalità con cui questo tipo di sensibilizzazione è promossa dagli artisti pop o dai palinsesti di streaming come Netflix, non senza semplificazioni, come accade nelle serie più centrare sul target adolescenziale – vedi Skam Italia o Sex Education – e la loro ricaduta sui social.
Si evidenzia una sfasatura sempre maggiore tra la parte della popolazione più sensibile perché più giovane e più aperta al cambiamento e quella maggioritaria, che invece resta succube del discorso mainstream più tradizionale, saldamente in mano a chi ne detiene il controllo politico, foucaultinamente, presentandosi come voce più autorevole: la televisione, ancora principalmente ostaggio di politici e intellettuali di una generazione precedente e legati all’ideologia precedente, ma anche le istituzioni universitarie che spesso continuano a proporre una visione del mondo non adeguata alla complessità del nostro presente. Tra questi due fronti si apre dunque un deserto dei tartari in cui pochi impavidi si avventurano e cercano di far sentire la propria voce.
Il cambio di rotta che ho individuato in un certo tipo di saggistica, nella scorsa rubrica, a partire dal Canone ambiguo di Luca Starita, contribuisce a illuminare le complessità dell’argomento evitando di ricondurle al bipolarismo della semplificazione e della banalizzazione, che finiscono in entrambi i casi per suscitare un’adesione incondizionata o un altrettanto categorico rifiuto più o meno per partito preso. La possibilità di cambiare le regole e le direttrici del discorso mainstream mi pare da ricercare proprio in una riflessione che riesca a descrivere in modo semplice il cambiamento nella propria complessità. A questo livello, l’idea di una rappresentazione inclusiva di Starita mi pare completarsi in quella proposta da Jennifer Guerra, che condivide la sua intenzione di individuare narrazioni alternative a quella dominante da una prospettiva spiccatamente femminista, che per via intersezionale richiama costantemente la necessità di scavalcare il binarismo di genere parallelamente ai modelli trasmessi dalla sessualità eteronormativa.
Guerra si adopera da alcuni anni in una energica attività di divulgatrice con l’obiettivo di avvicinare al femminismo teorico e quello più concreto numerose tipologie di lettori che mediamente se ne tengono lontani. In questa categoria non includo solo gli uomini che senza troppo porsi il problema assecondano, magari anche inconsciamente (ma ciò non è una scusa), una società maschilista e paternalista almeno quanto si dimostra omofoba. Mi riferisco – come Guerra – primariamente alle donne che per prime rifiutano l’adesione al femminismo per svariate ragioni, che possono andare al di là del più evidente bisogno di non essere escluse dall’ambito in cui più facilmente sono accettate, che è quello dello sguardo maschile.
A partire da questo obiettivo, il secondo libro di Guerra, Il capitale amoroso: manifesto per un eros politico e rivoluzionario, annuncia innanzitutto che la condizione indispensabile per portare avanti qualsiasi discorso che si opponga alla discriminazione di genere e di identità sessuale è la riscoperta dell’amore di sé, che ci mette nella predisposizione a poterne donare agli altri. Il libro di Guerra esce non per un editore indipendente, ma per Bompiani, per la collana “Munizioni” diretta da Roberto Saviano, e ha quindi ricevuto un impatto molto potente, che ha suscitato subito l’attenzione della stampa nazionale e degli ambienti culturali maggiori. Si tratta tuttavia anche in questo caso di un libretto piccolo, agile e denso in cui non si fanno chiacchiere scomposte ma si porta avanti una tesi che ha un punto di origine, uno d’arrivo, e una solida articolazione, costruita su basi teoriche selezionate accuratamente e minuziosamente articolate.
Guerra conduce il suo argomento principale toccandone per la via numerosi altri, con la delicatezza, la chiarezza e la lucidità che contraddistingue la sua scrittura, riprendendo ed espandendo in varie direzioni la riflessione avviata dal precedente volumetto pubblicato per Tlon l’estate scorsa, che aveva avuto un titolo più esplicitamente femminista, Il corpo elettrico: il desiderio nel femminismo che verrà, per indirizzarla verso destinazioni diverse. I due volumi si richiamano costantemente ed evidenziano l’obiettivo dell’autrice di rispondere con nuove parole a quesiti sollevati in quella sede, già cruciale nel collegare gli ambienti di un certo femminismo a un pubblico più trasversale in continuità con la conversazione avviata nel suo podcast Anticorpi, di cui Il corpo elettrico ha costituito una meditazione direi più riposata e articolata.
Guerra non è certo cresciuta nel contesto dell’intellighenzia pretenziosa, muovendosi piuttosto nella febbricitante e vivace area della conoscenza che resta in ombra rispetto alla cultura accademica ed è descritta da blog, podcast e dirette streaming – è stata spesso animatrice del format Decamerette che ci ha accompagnato nel lockdown precedente, per esempio – ma la sua riflessione poggia su una conoscenza minuziosa, a tratti enciclopedica, della teoria femminista in tutte le sue ramificazioni e configurazioni storiche. Il Capitale amoroso potrà dunque non introdurre novità radicali ai lettori consolidati di Guerra, riferendosi a Rosi Braidotti, Judith Butler, Teresa De Lauretis per portarne avanti la riflessione sul corpo e sulla sua rappresentazione culturale e letteraria.
Attingendo anche in questo volume copiosamente alla letteratura americana, il Capitale amoroso punta a rovesciare le strutture dell’ideologia che alimenta dal profondo le strutture culturali alla base della nostra società occidentale. La riflessione di Guerra ha avvio da una letteratura un po’ obliqua della narrativa di Ernest Hemingway, sua grande passione letteraria, laddove nel Corpo elettrico si era ispirata a una specifica esplorazione della fisicità promossa in ambito trascendentalista da Walt Whitman in anni lontani da noi, di cui tuttavia si ripropongono medesime riflessioni e perplessità. Da qui, Guerra ripercorre esempi di testi su cui si è costruito un certo tipo di riflessione che in diversi momenti della storia occidentale hanno provato ad afferrare e descrivere la natura fuggevole dell’amore.
Evitando banalità e sdolcinature, l’operazione di Guerra è quella di demistificare il mito dell’“amore romantico” e l’ideologia nutrita da un certo tipo di cinema e di immaginario, che ci ha consegnato una società irrigidita in un unico modello di relazione che ne esclude nel concreto ogni realistica alternativa. In opposizione, Guerra ripercorre la trattatistica d’amore a partire dal medioevo, dall’esplorazione delle dinamiche dell’amore cortese di Andrea Cappellano, investigando cosa determina culturalmente e socialmente le narrazioni che hanno prodotto le opposte ideologie riassumibili da un lato nello scialbo sentimentalismo e dall’altra nel cinismo, altrettanto qualunquista, che vi si oppone. Come si evince dalla citazione di Braidotti in apertura, Guerra è ispirato dall’etica affermativa di Spinoza, che è ripresa nei capitoli successivi.
Da questa percezione dell’amore come forza che ci spinge a mettere in discussione costantemente le nostre scelte, Guerra passa a descrivere varie possibilità di teorizzazione il legame amoroso, citando en passant quello dei “frammenti” di Roland Barthes per poi avvolgersi in modo più analitico alla classificazione dei sei discorsi dell’amore fornita dal sociologo John Alan Lee in Colours of Love: An Exploration of the Ways of Loving, nel 1973. Essendo stato Lee teorico e attivista LGBTQ+, nonché gay come Barthes, appare evidente che il discorso d’amore di Guerra non può che presentarsi come strettamente legato nella molteplicità delle sue forme che non possono limitarsi alla coppia eteronormativa e alla famiglia patriarcale.
La riflessione di Lee ha considerato l’incrocio delle tre formulazioni dell’amore definite dalla tradizione greca – eros, ludos e storge, che possiamo definire anche come philia – che combinate variamente risultato nelle tre modalità di dimostrare affettività riassumibili in agape, pragma e mania. Alla definizione delle categorie, Guerra fa seguire le modalità in cui queste combinazioni hanno determinato la discriminazione tra le forme di amore che sono accettate dalla società borghese e quelle che invece ne sono respinte, contribuendo a confermarne e istituzionalizzarne le forme accettabili nel regime della famiglia monogamica, producendo una letteratura che ne ha confermato l’ideologia o vi si è opposta, per esempio citando i casi di Jane Austen e di May Alcott.
Nel contesto più generale, è Agape la forma di amore che sembra interessare più nel profondo Guerra, individuando all’incrocio di eros e storge/philia quella dimensione altruistica dell’amore che non ambisce ad alcuna forma di guadagno o vantaggio personale, esprimendosi come un amore per il prossimo da cui per esempio ha origine il messaggio cristiano, tendente più al sacrificio di sé che al guadagno personale. Agape, per Guerra, rappresenta l’unica forma di resistenza al sistema capitalistico e agli ideali di sopraffazione, individualismo e competizione che lo sostengono. Da questa prospettiva si giunge al cuore del libro e del discorso dell’autrice, indicando in questo tipo di propensione amorosa il “capitale” di chi investe nella scelta radicale di trasmettere amore e contribuire all’edificazione della propria comunità.
L’analisi di Guerra si evolve in modalità più spiccatamente politiche passando poi attraverso le filosofie di Max Erhmann, Alain Badiou, e di Marcuse in Eros e civiltà, ma anche riferendosi alla lezione della psicoanalisi di Freud e Fromm e del basilare Marx, inserendosi nella stessa dimensione di pensiero esplorata anche da Slavoj Žižek in un libro del 2015 divenuto subito un classico del pensiero anticapitalista, Problemi in paradiso. Guerra si sofferma su come le modalità in cui esperiamo il mondo ci sottrae una realistica possibilità di amore, su come il mito della produttività condizioni il nostro modo di concettualizzare il tempo libero e ci renda sostanzialmente più individualisti anche nel mondo degli affetti.
L’individuazione di un principio di prestazione che ci porta a eccedere nel “poter fare” piuttosto che nel “dover fare” guida Guerra attraverso la critica femminista e quella postcoloniale, analizzando il potere simbolico delle rappresentazioni dell’amore definite da chi detiene il “capitale economico”, il “capitale sociale” e il “capitale culturale”, per dirla in parole di Pierre Bordieau, per immaginare spazi e pratiche di resistenza e opposizione che abbiano origine dalla concettualizzazione di un “capitale amoroso” da potervi opporre, che fa seguito alla concettualizzazione del “capitale corporeo” ipotizzato nel volume precedente. L’attenzione è costantemente rivolta alla “paura collettiva dell’amore”, alle possibilità che i legami possano valere più della nostra presenza individuale, della nostra affermazione come individui: amare significherebbe perdere il controllo, “cambiare le regole del gioco” del mondo neoliberista, riprendere il concetto di libertà più vicino a quello pronunciato da Marx, inteso come realizzazione collettiva possibile solo all’interno di una comunità.
Emerge inoltre come punto di riferimento nella riflessione di Guerra, tra i nomi maggiori della teoria femminista, quello di bell hooks, legata alla convergenza della tematica femminile con quella razziale. È hooks a dire che “l’amore è uno strumento per elaborare collettivamente alternative al potere” (76), sottolineando la sua complicità nel regime di chi è oppresso. Gli ultimi due capitoli sono dedicati all’“amore come comunità” di Martin Luther King per sottolineare il potenziale dell’amore come forma di accrescimento e potenza, riconosciuto quale fonte di passione positive: se tristezza e solitudine ci annichiliscono, allora bisogna coltivare la positività dell’incontro. Nell’ultimo capitolo Guerra cita l’“eros alato” di Aleksandra Kollontaj, unica donna nel governo di Lenin e prima al mondo a ricoprire la carica di ministra.
Una parte della stampa mainstream ha letto il libro di Guerra come un messaggio positivo contro il cinismo. L’altra, speculare, l’ha criticato accusando l’autrice dell’ingenuità che si associa spesso alla dimensione della gioventù, essendo la scrittrice anagraficamente molto giovane. La bipartizione finisce per confermare la profondità del messaggio di Guerra, diretto proprio contro il fronte dei cinici e della necessaria associazione dell’età adulta allo stile di vita borghese che questi sostengono, contribuendo a difendere lo status quo definito dal sistema capitalistico. Il messaggio di Guerra, come quello di Starita, si conclude allora con la consapevolezza amara della difficoltà oggettiva di diffondere una dimensione societaria inclusiva al di fuori delle cerchie già sensibilizzate, scontrandosi con una narrazione mainstream difficile da rimuovere, ma che, seppure lentamente, si sta evolvendo.
Perciò Guerra conclude: “Anche oggi, per certi versi, dobbiamo elaborare lo stesso trauma che i russi vissero nel 1918: le nostre certezze sull’amore sono crollate in un momento storico già di per sé caratterizzato da precarietà e incertezza” (113). Per quanto si celebri l’amore come fattore di inclusione, ci si concentra anche sul fatto che il confine tra ciò che è lecito e no – la linea che costituisce la normatività – determina che tuttora ci siano legami accettati e non accettati, o considerati meno, una logica prescrittiva che ci riporta alla dimensione del pragmatismo più cinico.
Le difficoltà del vivere contemporaneo ci spingono a chiuderci nel sesso occasionale, nell’amicizia o nella solitudine, eppure Guerra nel modo più cristallino ci ricorda che la risposta più immediata risiede nella possibilità di scegliere una forma di alleanza più intima. Da Braidotti a Kollontaj, l’amore dunque si presenta in primo luogo come forma di trasformazione della condizione femminile, ma condiziona visibilmente in modi inestricabili quella maschile, e per questo motivo dovremmo lasciarcene coinvolgere tutti allo stesso modo, al di là delle classificazioni di genere, di sesso, di inclinazione sessuale, di razza, e soprattutto, di classe sociale.