Pubblicato nel 1938 – ma iniziato dall’autore circa quattro anni prima, quando aveva appena compiuto trent’anni – Ferdydurke è il primo romanzo di Witold Gombrowicz che fino a quel momento aveva dato alle stampe una raccolta di racconti e un’opera teatrale giovanile.
Dallo scorso autunno Ferdydurke è tornato in libreria per i tipi de Il Saggiatore che da alcuni anni promuove con merito la ripubblicazione delle opere (Cosmo, Pornografia, Trans-Atlantico, Kronos) di colui che è considerato unanimemente il più grande scrittore in lingua polacca. E lo fa con un’edizione tradotta da Irene Salvatori e Michele Mari arricchita da due importanti contributi: una prefazione dello stesso Mari e una postfazione di Francesco M. Cataluccio che ha curato l’intero volume. Dicevamo importanti perché Ferdydurke si presenta come un testo ostico fin dal titolo; è una parola che in polacco non significa nulla e che – finora – non ha trovato risposta davvero interessante in alcuna delle teorie proposte.
È, nella ricerca di un filo seppur sottile di trama, la storia di Giuso (Józio nell’originale), aspirante scrittore trentenne che si trova improvvisamente, dopo la visita del misterioso Professor Pimko, regredito alla sua infanzia o, per meglio dire, a una condizione d’immatura adolescenza. E, da lì, rinchiuso in una scuola tra compagni di classe separati nettamente in due categorie, rappresentate dall’anima bella – l’idealismo, l’innocenza – di Sifone e la corruzione oscena e solo apparentemente ribelle di Mentino.
Ma la scuola sarà solo il primo tassello di un percorso iniziatico che coinvolgerà il protagonista e che lo vedrà, dapprima, al centro del mondo borghese intriso di modernità della famiglia Jovinelli cui sarà affidato per completare il suo processo d’infantilizzazione e, in seguito, nel tentativo di fuga, intrappolato in quello dell’aristocrazia campestre cui appartiene – composto di zie e zii che, analogamente, non ne tollerano la naturale e possibile crescita.
Romanzo di formazione sui generis dall’inequivocabile spirito grottesco, Ferdydurke appare però, fin dall’inizio, come un tentativo molto più elevato di scrittura tanto nella forma – termine su cui sarà necessario tornare – che nello spirito dei contenuti. Ferdydurke è, al contempo, tanto un gustoso romanzo picaresco dominato dai tratti dello humour, di una gioia ribelle, della cattiveria – tanto degli adulti sclerotizzati che di ragazzini inseriti in una causa ben più alta della loro inesistente volontà – quanto un romanzo programmaticamente filosofico caratterizzato da un’incredibile indisciplina linguistica che – immaginiamo soprattutto per Mari – ne rappresenta uno dei tratti più indicativi per un libro costruito sulla lingua polacca e traducibile solo al prezzo di enormi sforzi e conoscenze (si rimanda alla postfazione di Cataluccio per l’incredibile storia così affine allo spirito del romanzo della sua traduzione – benedetta dallo stesso autore – della versione argentina; Gombrowicz si trasferì a Buenos Aires nel 1939 e lì vi rimase per vent’anni, in seguito all’occupazione nazista).
Ferdydurke nasce dall’esperienza dello stesso scrittore che, all’alba dei trent’anni e nella Polonia tra le due guerre, si sentiva “come uno che vuole essere ma non può, che vuole esprimere ma non ci riesce”. Il mondo che Gombrowicz costruisce è – per usare ancora le sue parole – certamente una “resa dei conti con tutto ciò che mi ha infantilizzato, tutto ciò che ha pesato in maniera determinante sul mio sviluppo”. Ecco allora che gli attacchi dell’autore sono molteplici: la classe intellettuale, la nobiltà terriera, il mondo contadino, una borghesia che si crede moderna ed è solo provinciale. Un’invettiva verso la sua terra – un “paese da operetta” la definisce Cataluccio – che si allarga, però, all’Europa intera, a un continente e a una società che ne è la struttura portante ormai cadente, che professava “ideali non perché li avesse nel sangue ma perché gli ideali organizzavano le cose. Erano tutti alla febbrile ricerca di una forma per non sfasciarsi. […] E invece era tutta un’ingenua automistificazione”.
Bisognerebbe anche stabilire, decidere e decretare se si tratti di un racconto, di un diario, di una parodia, di un pamphlet, di una variazione su un tema di fantasia, di un saggio – e cosa vi prevalga: lo scherzo, l’ironia o la serietà più profonda, il sarcasmo, la caricatura, l’invettiva, l’assurdo, il puro nonsense; o se invece non sia che una posa, una mistificazione, un divertissement, una costruzione artificiosa, un umorismo deficitario, un’anemia del sentimento, un’atrofia dell’immaginazione, un indebolimento dell’ordine e uno spreco di intelligenza.
Ma la grandezza di Ferdydurke – dalla struttura tripartita interrotta da due intermezzi buffoneschi (Filidor foderato d’infanzia e Filibert foderato d’infanzia, indipendenti dalla narrazione e preceduti ciascuno da una prefazione che ne accentuano il carattere filosofico) – non può certo risolversi in una personale rivincita contro i demoni nazionalisti polacchi, perché è ormai evidente come la sua opera sia diventata – a posteriori – lo specchio deformato di una società – quella che in Germania si sarebbe chiamata della Repubblica di Weimar e che Luchino Visconti avrebbe eternato su celluloide nel capolavoro La Caduta degli Dei – ormai compromessa e corrotta a ogni livello, dove la tragedia incombente – il crollo irreversibile di un mondo ormai davanti al precipizio della Seconda Guerra Mondiale e degli orrori del Terzo Reich – era o sarebbe stata l’altra faccia – cupa e micidiale – di un’epoca ridicola, di un mondo di marionette indegnamente truccate, di una perversione da cabaret sul limitare della propria estinzione.
E non è certo un caso se tutti i capitoli dedicati alla scuola sembrano richiamare alla mente l’opera immensa di un altro polacco, quel Tadeusz Kantor che, fin dagli stessi anni, proverà a immaginare un teatro clandestino e d’avanguardia su basi molto simili che solo molti anni dopo confluiranno nel manifesto cardine della sua opera, quel Teatro della Morte che avrà sua massima espressione nel capolavoro La Classe Morta.
Restando alla Polonia e facendo nostre le parole di Michele Mari “che Gombrowicz avesse dei conti da regolare con la sua Polonia ci interessa artisticamente poco o nulla. Quello che ci interessa e rapisce è l’estro, un associazionismo analogico da far sbiadire il più audace dei surrealisti […] la morbosità cerebrale e la cerebralità morbosa, l’umorismo, la disperazione, la capacità di trattare teatralmente situazioni picaresche, il senso musicale della composizione fra le persone, l’ipersignificazione magica” – con proprio questo elemento, che troverà sua assoluta compiutezza in quello che per chi vi scrive è il vero capolavoro dello scrittore polacco, quel Cosmo che sarà pubblicato nel 1965 – appare allora chiaro che la grandezza di Ferdydurke sta tutta nel lavoro sul linguaggio e su quel liberarsi della forma che si fa specchio della stessa vana liberazione dalle diverse forme – le diverse facce – che la società impone progressivamente al protagonista, configurandone una continua posa e una costante sensazione di falso.
Ma non si può chiudere il discorso intorno a Ferdydurke senza chiamare in causa l’altro e ultimo tratto fondativo dell’opera che è il suo legame con l’esistenzialismo che Gombrowicz – per il quale Sartre era stato “il codificatore dei miei stessi sentimenti” – stesso rivendicava: “Ferdydurke è esistenzialista fino al midollo. […] risuonano, eseguiti in fortissimo, quasi tutti i temi fondamentali dell’esistenzialismo: il divenire, la creazione di sé, la libertà, la paura, l’assurdità, il nulla… Con la differenza che qui […] si aggiunge un’altra «sfera» della vita umana: la sfera dell’immaturità”.