a cura di Nunzio Bellassai
“Non c’è mai stato un poliziotto nero qui. Tu potresti essere l’uomo che crea un’apertura in questa città.”
America, anni ’70. All’indomani dell’assassinio di Martin Luther King e di Malcolm X, con l’emergere delle voci di Black Panthers e di altri movimenti per i diritti delle persone di colore. Tra buoni propositi e sostanziali difficoltà, Ron Stallworth decide di entrare nella polizia di Colorado Springs. Il primo poliziotto di colore. Inizialmente viene assegnato all’archivio, ma la sua vocazione è più operativa, quella di agente sotto copertura. Ron, interpretato da John David Washington, figlio di Denzel, avvia così i contatti con il Ku Klux Klan per comprendere i loro loschi piani, prima telefonicamente e poi di presenza, grazie alla collaborazione del collega Flip Zimmerman (Adam Driver), che partecipa agli incontri del gruppo, fingendosi Ron, e in breve riesce a ottenere persino la tessera del cantone.
Spike Lee torna a raccontare con un sorriso amaro un’America divisa e paradossale, in pieno tumulto. Ron si avvicina a due poli opposti, da un lato il radicalismo black dei gruppi per i diritti civili, di cui subisce il fascino della leader, dall’altro il moralismo subdolo e malato del Ku Klux Klan, il mito della superiorità della razza pura, il razzismo verso ogni forma di diversità. Accanto a lui, rimane costante la presenza di Flip, che si scontra con la sua identità di ebreo. Flip dichiara di non aver mai pensato alla sua religione come una diversità o qualcosa di cui vergognarsi, ma dopo il suo ingresso nel Klan, nei panni di Ron Stallworth, matura nuove consapevolezze, nuovi dubbi e ansie.
– Flip: Per te è una crociata, per me è un lavoro.
– Ron: Tu sei ebreo… quest’odio non ti fa rodere un po’?
La mano di Spike Lee si vede nel suo continuo indugio su momenti topici, dove l’andamento del film rallenta e si lascia spazio alle parole, alle riflessioni. Come nel caso della lunga scena del comizio di Stokely Carmichael resa con la tecnica del controcampo nelle espressioni dei ragazzi di colore, trasformati in presenze fantasmatiche su uno sfondo scuro. Altra scena significativa è quella del discorso tenuto da David Duke, Gran Maestro del Klan e politico ancora oggi in auge, durante la riunione del Klan, che si svolge in parallelo con il racconto di Harry Belafonte sul brutale omicidio di Jesse Washington, un bracciante afroamericano accusato di stupro, nel 1916. Una tensione drammatica che si sviluppa in un climax ascendente, che lascia incollati allo schermo, a indugiare sui particolari tragici e cruenti del pestaggio.
È lo specchio di un Paese contraddittorio, raccontato con lo sguardo disilluso e per nulla passivo di un regista che crede nel cambiamento e che instaura un confronto con il presente. Il film racconta gli anni ’60 e ’70, ma oscilla come un pendolo tra il passato, con la scena iniziale tratta da Via col vento, usata come pubblicità propagandistica da Kennebrew Beauregard, e soprattutto il nostro presente. Ai discorsi ambigui di Trump, ai comizi di Duke seguiti da migliaia di persone, alla manifestazione di Charlottesville del 2018. Fino a oggi. Il film dialoga con la nostra quotidianità, con le scene di tutti i giorni. Black Lives Matter recitano i cartelloni che sfilano lungo le vie di Washington, Minneapolis, New York. Tamir Rice, Laquan McDonald, Freddie Gray, Trayvon Martin non sono nomi appiattiti dagli anni, ma persone, con tutti i diritti che si addicono a questa definizione. E da George Stinney Jr. a George Floyd la situazione non pare cambiata, gli scontri continuano e gli abusi di potere della polizia americana pure.
Spike Lee, con questo film, dal forte impegno civile e politico, vincitore del premio Oscar per la migliore sceneggiatura non originale, mette in scena attraverso le tecniche della caricatura e del paradosso, che portano due ragazzi, uno ebreo e uno di colore, nel cuore del Ku Klux Klan, sfidandolo, irridendolo, una parodia della realtà, una deformazione satirica che lascia lo spettatore sospeso, in bilico, tra attrazione e repulsione. E infine una provocazione del regista, una denuncia ad alta voce, un punto saldo nella storia del suo cinema. Un altro efficace, coraggioso “Spike Lee joint”.