Leggendo L’esercizio, romanzo di esordio di Claudia Petrucci, pubblicato da La nave di Teseo, non si può fare a meno di ritrovarsi a sondare quel nebuloso confine che separa l’autenticità delle persone che ci circondano e le proiezioni dei nostri bisogni che riversiamo sulle stesse. In un’opera prima che ha già la solidità di una penna navigata, infatti Petrucci prende in mano un tema caro alla letteratura – quello che si interroga sull’annosa dualità della persona e del suo personaggio – e ce lo riporta in chiave contemporanea e dando a esso nuova linfa. I protagonisti de L’esercizio sono tre: Giorgia, Filippo e Mauro. I primi due sono una coppia in equilibrio precario tra l’apprensività di lui e l’instabilità emotiva e mentale di lei; il terzo è il regista teatrale del passato di Giorgia che interverrà nella coppia quando, dopo il crollo psicologico della giovane donna, arriverà il momento di reinventarla. Petrucci si cala nel racconto attraverso la voce in prima persona di Filippo, dal cui occhio osserviamo la fragilità di Giorgia e ciò che lui le riversa dentro, prima immaginando, poi mettendolo per iscritto, dando vita a un gioco drammaturgico fatto di finzione che aderisce alla realtà, ma anche di squilibri di potere. Ne abbiamo parlato con Petrucci stessa per indagare meglio questi aspetti.
Come molti degli scrittori esordienti, la tua gavetta è passata attraverso diversi racconti pubblicati su varie riviste letterarie italiane. Com’è stato il passaggio dalla forma breve al romanzo? Quanto tempo ci hai lavorato?
L’idea del romanzo esisteva già dal 2016, i personaggi erano pronti, ma proprio perché non avevo mai elaborato nulla di strutturato – non a questo livello – ho preferito allenarmi scrivendo per le riviste e aspettare. Volevo usare il giusto impianto narrativo e un certo tipo di lingua: quando ho capito di potere gestire bene entrambi ho iniziato a lavorarci. È stata una transizione naturalissima. Quando ne parlo, dico sempre di ricordare quello della stesura come un periodo di intensa stanchezza, ma è stata una stanchezza tutta fisica, legata ai ritmi del mio lavoro (sorpresa: non è la scrittura). In realtà il processo è stato fluido e relativamente breve. Ho iniziato e terminato il mio primo romanzo in quattro mesi, e non l’ho toccato fino all’editing in casa editrice: proporzionalmente, la stesura di alcuni racconti è durata molto di più. Per quel che mi riguarda, il racconto richiede più attenzioni, è una cosa piccola che sta per esplodere; il romanzo può essere disinnescato con maggiore calma – ma è anche potenzialmente più pericoloso.
Nella prima parte del tuo romanzo – il lungo, potentissimo antefatto – Filippo presenta sé stesso e Giorgia definendola “la storia che ho raccontato a me stesso”. Pensi che nell’inestricabile nodo delle relazioni umane, molto di ciò che crediamo di conoscere dell’altro sia in realtà una narrazione nostra a cui decidiamo di credere?
Mi chiedo cosa in effetti non appartenga alla categoria narrazione nostra. Siamo naturalmente propensi alla costruzione narrativa, è così che lavoriamo all’elaborazione della memoria – Neisser ha dimostrato che nei nostri ricordi ci affidiamo a strategie narrative complesse molto affini a quelle usate dagli scrittori per la creazione della finzione realistica. Un meccanismo che ritengo altrettanto narrativo si attiva nel momento in cui incontriamo un’altra persona; a riguardo, Alexander Todorov, da Princeton, ci racconta The Irresistible Influence of First Impressions, spiegandoci che valutiamo le persone che ci si presentano in pochi secondi, applicando rudimenti di fisiognomica, valutazioni istintuali del linguaggio non verbale: sulla prima impressione edifichiamo assunti procedendo per inferenze; possediamo un muscolo involontario che ci educa a riconoscere un’intelligenza superiore in individui che portano gli occhiali, per esempio, ma anche questo procedimento irriflesso è frutto di una narrazione esterna, l’intelligenza con gli occhiali è un tipo di personaggio che ci è stato raccontato, anche se scientificamente sappiamo che l’intelligenza è un concetto soggettivo e di difficile misurazione. Ecco, ora proviamo a intersecare questi due piani narrativi: se è vero che ci raccontiamo la memoria e se è vero che ci raccontiamo le persone, è possibile che nelle relazioni umane a contatto ripetuto e frequente i due piani confluiscano in una struttura complessa, una vera e propria trama? Dopotutto le storie d’amore o le amicizie si sviluppano intorno al conoscersi e al fabbricare ricordi comuni, ma in questo processo ognuno porta il suo racconto, che sarà fruito in modo differente a seconda del gusto e delle narrazioni personali dei partecipanti. Forse la corsa al raggiungimento di una forma pura di realtà è inutile, forse è sufficiente incontrare qualcuno che ci racconti la storia di cui ci sentiamo protagonisti, o qualcosa di molto simile – forse è quello che già facciamo senza la necessità di teorizzarlo? Non lo so, il dubbio è la ragione per la quale ho scritto questo libro.
A proposito di narrazioni, non è un caso che la costruzione del personaggio di Giorgia passi attraverso lo voce di Filippo: come mai hai deciso di scrivere in prima persona, dal suo punto di vista?
Mi interessava la resa di un punto di vista asfittico, personalissimo, tirannico, e ho voluto chiarirlo da subito con l’antefatto di cui hai parlato. Nell’antefatto Filippo è narratore onnisciente della vita di Giorgia, ne ricompone movimenti, pensieri, insofferenze oggettivamente impossibili da riprodurre perché non viste, non comunicate, non verbalmente espresse. In questo senso specifico, Filippo è un narratore formidabile perché non si mette mai in discussione, resta fedele alla sua costruzione anche quando la vede andare in pezzi, e questa rigidità lo caratterizza come personaggio, ci dice moltissimo del suo modo di concepire la vita. Da un punto di vista meno tecnico, oltre al piacere di interpretare una voce differente dalla mia per identità sessuale e convinzioni, nel ritratto dello sguardo ottuso di Filippo c’è tutta l’insofferenza che provo rispetto alla limitazione che l’Io mi impone – a pensarci mi manca il respiro: passerò tutta la mia esistenza solo nella mia testa, la vedrò tutta solo da questo punto di vista, il mio. È chiaro che, per non morire di noia, come minimo dovrò scrivere per sempre – o magari spostarmi in continuazione? Imparare a suonare un nuovo strumento ogni anno? Non so, come se ne esce?
La relazione tra Filippo e Giorgia crolla – insieme alla psiche di lei – con il suo ritorno sul palcoscenico, in una maschera creata da un altro che va a coprire la propria. Riusciremo a salvarci da questo continuo celarsi dietro maschere o il risultato sarà sempre quello della tragedia?
La criticità del rapporto tra Filippo e Giorgia è che le loro narrazioni non coincidono, la loro relazione può essere assimilata a un fiction crossover fallimentare. Quando Giorgia smette di contribuire alla narrazione di Filippo, prima per via della malattia e poi per una serie di accadimenti correlati ad essa, Filippo non è disposto a ritrattare, a procedere a un adattamento della storia: il suo schema narrativo si irrigidisce ulteriormente. Il nodo de L’esercizio non sono le maschere ma le reazioni dei personaggi agli sviluppi imprevedibili della finzione. Non credo che celarsi dietro un’identità sia necessariamente doloroso, ma può diventare doloroso – lo è anche fisicamente – restarvi bloccati all’interno. La finzione è una materia fluida, decidere di indossare una maschera significa essere pronti ad accettare l’influenza di immaginari altri, dell’imperfezione dell’ordito, di scritture pericolose o approssimative del personaggio. Può funzionare nella misura in cui noi siamo narratori flessibili.
Le maschere ci vengono imposte, ma spesso decidiamo anche di indossarle: costituiscono più una difesa dagli altri o da sé stessi?
È una questione intima, soggettiva, per cui posso rispondere solo dal mio punto di vista – purtroppo. Quando si impara, perché lo si impara, cosa piace agli altri è difficilissimo non cedere alla tentazione di accontentarli. Ad alcune persone piacciono certi tipi di forza, certi tipi di modi di parlare, certi tipi di espressione artistica, ad altre certi tipi di debolezza, certi tipi di genuinità, certi tipi di preferenze politiche. Per esempio: oggi trova ancora ampio consenso un certo tipo di identità di scrittrice, che legge certi tipi di libri, scrive certi tipi di articoli, favorisce certi tipi di comunicazione. Questi tipi di cose mi sono chiari, li distinguo, saprei come appropriarmene in modo efficace. E tuttavia è abbastanza lontano il tempo in cui la mia volontà di adattamento al consenso era spiccatissima, ovvero è più giusto dire che questa volontà c’è ancora, ma non ne sono più utilizzata: la utilizzo quando ritengo sia necessario. Le maschere non dovrebbero mai essere uno strumento di difesa dagli altri o dai (non è un refuso) noi stessi. Nel mio caso, adottare alcune maschere è espressione di una parte ampissima della mia identità, non voglio e non posso farne a meno, sarà sempre una forma di libertà nella misura in cui non mi starò nascondendo per proteggermi.
In un recente film che ho visto, la regista vuole mostrare la rottura del rapporto unilaterale tra artista e (s)oggetto di rappresentazione nella creazione di un’opera di pittura; tu qui giochi in un altro campo: quello del teatro. L’esercizio dopo tutto è il gioco messo in piedi da Filippo, con la forte presenza di Mauro, nella creazione di una nuova (o vecchia?) Giorgia, in cui lei non riesce ad avere voce in capitolo. È un caso che in questa dinamica di rapporti (e di poteri) la più debole sia una donna?
Non è un caso, ma il discorso è ampio. L’esercizio parla di un potere prevaricante e manipolatorio, che nel nostro mondo, quello reale, è storicamente esercitato a danno delle controparti socialmente, finanziariamente o fisicamente deboli. Questa dinamica di prevaricazione può connotare il rapporto uomo donna, ma può verificarsi e si verifica anche con segni diversi. Tutti e tre i protagonisti del romanzo sono soggetti a manipolazioni. In questa storia Giorgia è la più esposta e vulnerabile, ma anche Filippo soffre una continua pressione – sua madre lo vuole forte, gli impone di aderire a un personaggio che lui non riconosce suo – e perfino Mauro deve gestire i ricatti economici della sua famiglia. Riprendendo il tuo riferimento cinematografico, mi ha colpito una riflessione di Richard Brody per il New Yorker. Quando parla di Ritratto della giovane in fiamme, Brody focalizza la sua attenzione sul punto di vista della voce narrante, spiegandoci che la regista ha costruito il film intorno alla memoria: il racconto del rapporto tra le due protagoniste, Marianne ed Héloïse, è infatti reso attraverso la lente del ricordo di Marianne. Lo stesso ingresso di Héloïse nella storia, inquadrata a lungo solo di spalle, mi ha fatto pensare a un concetto di rappresentazione parziale, una possibilità di rappresentazione che poi prende corpo e si trasforma nell’unica possibile dal momento in cui le due donne interagiscono sullo schermo; non dobbiamo tuttavia dimenticare che è il ricordo di Marianne, a cui stiamo assistendo, e che al di là dei significati altri del prodotto cinematografico – che non devono essere discussi in questa sede – forse il punto di incontro tra i due mondi narrativi, quello del film in questione e quello del mio romanzo, è l’esercizio del potere di rappresentazione. Noi donne siamo state private a lungo di questo potere, qualcuno lo ha gestito al nostro posto con risultati disastrosi – è ciò che accade nel romanzo, a Giorgia. Anche agli uomini hanno subito e subiscono la costrizione delle rappresentazioni. Proprio come Héloïse ne Il ritratto della giovane in fiamme, è giusto che noi tutti critichiamo una rappresentazione imposta, che demoliamo narrative che ci opprimono, ci limitano, o in cui non ci è possibile riconoscerci.
Come hai pensato al personaggio di Mauro, il regista, colui che riesce a muovere i fili di Giorgia ma anche quelli di Filippo?
Mauro possiede un suo intento manipolatorio evidente. L’ho scritto come strumento utile a triangolare il perimetro della relazione tra Filippo e Giorgia. È un personaggio con un’etica personalissima e discutibile, ed è cosciente di essere un narratore dalle capacità infinitamente superiori a quelle di Filippo. Per Mauro, a parità di condizioni, vince sempre la storia scritta meglio, e questo è l’unico presupposto su cui basa le sue scelte.
L’ambientazione intorno al luogo del teatro e alle sue figure ti ha permesso di muoverti facilmente tra la finzione narrativa e quella teatrale. È stata una scelta meramente funzionale o hai avuto in passato una qualche sorta di rapporto col teatro?
Nel 2010 ho dovuto abbandonare prematuramente un corso di recitazione alla Scuola Civica Paolo Grassi. Lasciare mi è pesato moltissimo. Precedentemente avevo studiato recitazione in piccole compagnie locali e all’università avevo cercato di infilare nel piano di studi tutti gli esami possibili di storia del teatro. L’abbandono della Paolo Grassi deve essere stato più traumatico di quel che credevo, perché, quando nel 2016 si è formato l’embrione del romanzo, la Scuola era già parte della storia – nello specifico uno dei suoi cortili interni, e il ricordo di una sera in cui lo avevo attraversato. Non è stata quindi una scelta funzionale.
Quali sono i tuoi riferimenti letterari? Gli autori e le autrici che hanno più influito nella tua formazione? Da scrittrice, pensi che la tua scrittura sia stata influenzata in qualche modo dal tuo bagaglio di letture?
La verità è che non sono stata educata alla definizione dei miei riferimenti letterari, e quindi fatico a organizzarli, penso anche che ogni cosa che ho letto abbia influito sulla mia formazione – soprattutto i libri dimenticabili, scritti male. Mi rendo conto tuttavia dell’utilità del circoscrivere e perciò ne nominerò alcuni: Lem, London, Carrère, Borges, Kafka, Buzzati, Morselli, Shelley – Mary, Némirovsky, Le Guin, Zimmer Bradley. Nello specifico opere singole e autori spunto per L’esercizio: L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks, Eva futura di Villiers de L’Isle-Adam, Scritto sul corpo di Jeanette Winterson, Solaris di Stanislaw Lem, Punto contro punto di Aldous Huxley. E sì, la mia scrittura è assolutamente influenzata dal mio bagaglio di letture.
Da italiana all’estero, in Australia, che rapporto mantieni con l’Italia, ma soprattutto – da scrittrice con la lingua italiana? Pensi resterà il tuo mezzo anche il futuro?
Gran parte della mia famiglia vive in Italia, a Milano. Milano è anche l’unico posto in cui forse potrei tornare a vivere stabilmente nel mio Paese d’origine – e con stabilmente intendo un periodo che oscilla dai tre ai quattro anni. Iniziare a parlare fluentemente inglese ha messo alla prova il mio italiano, che si è impoverito, soprattutto nella qualità oratoria e nella conversazione. Anche la scrittura ne ha risentito, ma in un modo tutto particolare che mi permette ancora di garantirle dignità. Sto pensando di iniziare a scrivere in inglese, anche se qualche mese fa ho detto al mio agente che non l’avrei mai fatto.
Speriamo di vederti presto in qualche presentazioni: ne hai altre in programma nel prossimo futuro?
Sono dovuta scappare in anticipo dall’Italia per via dell’allarme coronavirus, nel timore che chiudessero le frontiere australiane – è una cosa che qui fanno volentieri. Facciamo che ci aggiorniamo una volta che tutti abbiamo capito a cosa servono davvero le mascherine? Tornerò presto per contribuire alla promozione del libro, comunque: tra maggio e giugno.