a cura di Alessia Ragno
Nel 2016, due anni dopo la morte di Elizabeth Jane Howard, la scrittrice inglese Hilary Mantel, sua amica personale negli ultimi anni di vita, ne traccia un profilo commovente e appassionato sul Guardian. La tesi sostenuta è che non sia stata resa giustizia al talento di Howard e la colpa è dell’equivoco sulla narrativa “by women for women”, scritta dalle donne e destinata solo alle donne, lo stesso che aveva quasi travolto l’eredità di Jane Austen. Sempre nel 2016 la scrittrice Artemis Cooper pubblica una complessa biografia, Elizabeth Jane Howard. Un’innocenza pericolosa (Fazi Editore), nella quale afferma:
Ci sono dei momenti in cui la scrittura di Jane, come ipnotizzata dal lento passare del tempo, scivola in folle. […] Ma l’acuta percezione di Jane è sempre presente e, se il lettore non presta attenzione, viene facilmente ignorata.
Per Mantel e Cooper, Jane Howard è una delle più grandi autrici inglesi del XX secolo e il racconto che fa della sua epoca è non solo stilisticamente irreprensibile, ma anche eccezionale per l’acuta capacità di osservazione dei rapporti umani, delle dinamiche familiari e del ruolo della figura femminile.
Howard raggiunge il successo letterario già con il suo primo romanzo, The Beautiful Visit del 1950, per poi consolidarlo definitivamente con la seconda opera, Il lungo sguardo (Fazi Editore). Un romanzo scritto a ritroso, l’esplorazione del matrimonio di Antonia e Conrad Fleming dal fallimento alle ragioni dell’amore. Il marito scivola in un cosciente stato di disinteresse, perché “in generale non gli importava nulla degli altri, né desiderava che agli altri importasse di lui”, fatta eccezione per la moglie ma solo perché “in un periodo della loro vita le aveva rivelato troppo di se stesso”. Di contro Antonia si trasforma in “un mostro di infelicità, assurdo e indecente, che nessuno avrebbe dovuto vedere”, così come era “«offensivamente, disgustosamente» infelice il Karenin di Tolstoj dopo che Anna lo aveva lasciato”. Il parallelo letterario è cruciale per Howard. Come il dolore che “faceva puzzare” Karenin, così l’infelicità di Antonia la sfigura e le infligge un destino feroce:
Dopo i quarant’anni, il lutto, la malattia, lo spavento e le conseguenti richieste di attenzione erano cose mal tollerate. Si supponeva che uno a quell’età avesse ormai trovato il suo posto nel mondo, e, se così non era, il mondo ignorava quel fallimento, lo relegava nell’angolo che a suo avviso gli competeva.
L’alterazione dell’amore, come l’ha chiamato la sua biografa Cooper, il fallimento del matrimonio e il conseguente abbandono sono esperienze che Howard conosce in prima persona e che infestano questo e i romanzi successivi. La tempesta emotiva di Antonia è tutta privata, come sarà per molte altre protagoniste e per Howard stessa. Il lirismo tragico da eroina romantica che si strugge per l’amore perduto è il registro che Howard sceglie per la sua prosa.
Le prime ore del mattino erano sempre le peggiori: i terribili momenti di dormiveglia in cui il presente faceva irruzione nel sonno, in cui metà della mente s’aggrappava all’oblio col suo corredo di illusioni, mentre l’altra lottava strenuamente per emergere alla coscienza, finché l’intera dolorosa situazione non prendeva possesso della mente e del corpo.
Il fallimento di un matrimonio equivale alla sconfitta dell’intera esistenza.
La catarsi letteraria di Jane Howard si manifesta, poi, con una figura ricorrente nei suoi romanzi: la “ragazza ingenua”, sempre nelle parole di Artemis Cooper, ovvero la giovane donna incontaminata dai fallimenti delle relazioni che Jane stessa tanto teme. È una ragazza ingenua Antonia Fleming in gioventù, quando si sposa per sfuggire dalla burrascosa vita familiare. Talmente ingenua che è il marito a spiegarle, in un lungo e pretenzioso monologo, le ragioni della loro unione:
Ti ho sposata […] perché diventerai una donna estremamente bella, il che per me significa che sarà piacevole guardarti. […] Sei fortunata ad aver trovato qualcuno che ti prenda così sul serio come sto facendo e continuerò a fare io.
Antonia gli crede ciecamente in un momento del romanzo in cui il lettore già sa della sua futura sconfitta. Una burla letteraria assistere al suo destino, seppure intorno ad esso resista imperturbabile tutto il bello delle case della borghesia, simbolo eterno delle convenzioni sociali in cui il dramma di Antonia è incastonato. Jane Howard sceglie di preservare la bellezza dei luoghi dalla decadenza delle relazioni personali. Antonia, infatti, vive il matrimonio, i tradimenti suoi e di Conrad, le bugie e le delusioni, nella magnifica casa di Campden Hill Square, nella ricca Kensigton londinese e, prima ancora, nella tenuta del Sussex dei genitori, dove “le file di asparagi erano vezzose e mondane come sussiegosi ospiti all’inizio di una festa in giardino”. È questa l’apparenza bucolica e sontuosa tanto cara a Jane Howard: una casa “solida e gioiosa nella sua bella posizione”, contenitore indifferente ai drammi familiari che vi si consumano all’interno.
Elizabeth Jane Howard con il marito Kingsley Amis e il figlio, lo scrittore Martin Amis
È una “ragazze ingenua”, tanto quanto Antonia Fleming, anche Elizabeth, la protagonista di Le mezze verità (Fazi Editore). È con lei che fa capolino l’elemento più moderno della produzione di Jane Howard, assente ne Il lungo sguardo, ma evidente già nei romanzi successivi: Cambio di rotta e All’ombra di Julius (entrambi Fazi editore). Adesso le “ragazze ingenue” possono avere una professione e l’indipendenza, precarietà finanziaria compresa. In Le mezze verità, il sesto romanzo della sua produzione, Elizabeth diventa chef privato mentre è ancora alla ricerca della sua identità, ma per lei rimane comunque “desolante che molte persone vivessero una vita in cui non succedeva mai niente, come la sua (…)”. E allora Howard le regala di nuovo la scappatoia dell’amore: durante il lavoro conosce il ricco John Cole, l’uomo con cui si sposa e ha un figlio. Elizabeth trova così il suo compimento, la ragione del suo essere e lo esterna più volte al fratello Oliver, suo confidente.
«Ma tu non leggi mai niente? E non senti mai parlare di libri che la gente legge?»
«Adesso sì! John legge molto. Anche romanzi».
[…]
«E tu? hai provato a leggerne qualcuno?»
«Qualche volta John legge per me, a letto. Mi piace molto», disse nervosa, spiando la sua reazione.
John legge per lei i romanzi migliori, le sceglie i vestiti alla moda, la benedice col suo amore come aveva fatto Conrad Fleming con Antonia in Il lungo sguardo. Elizabeth lascia che siano bellezza e giovinezza a diventare le chiavi d’accesso per la validazione personale, i passe-partout che la traghettano verso il mondo adulto come moglie trofeo di un uomo molto più grande di lei. Sembra che Howard voglia ancora conservare la patina da eroine romantiche delle sue protagoniste, pur confezionando per loro ricorrenti ragionamenti sul loro tempo e il ruolo della donna nella società. Le mezze verità si conclude con un’inaspettata incursione nel “giallo” alla Agatha Christie, ma dopo i colpi di scena ritorna il registro descrittivo e rassicurante che accompagna Elizabeth verso la quiete che cercava, anche se, questa volta, solo con l’amore della famiglia.
Nel 1990 Jane Howard pubblica Gli anni della leggerezza (Fazi Editore), primo volume di una saga composta da cinque romanzi, di cui l’ultimo scritto a quasi vent’anni di distanza dal precedente. È la sua opera più complessa, il lungo ritratto della famiglia Cazalet dal 1937 al 1958, una esplorazione delle complesse dinamiche familiari, degli effetti della Guerra su di esse e sul tessuto sociale dell’epoca. Non manca il solito compendio sulla figura femminile, preziosissimo anche in prospettiva moderna e decisamente ampliato rispetto ai romanzi precedenti. Perno della famiglia e degli avvenimenti ancora una dimora nella campagna del Sussex descritta sempre nei minimi particolari: Home Place. Essa resisterà, granitica, alla Seconda Guerra Mondiale, ai lutti, agli amori spezzati e quelli sopiti e quando Howard la presenta per la prima volta le dedica due pagine intere di descrizione. È questo l’esempio della scrittura che “scivola in folle”, come dice Artemis Cooper, e che dimostra la facilità dell’autrice di accumulare dettagli senza rendere sincopato il flusso della narrazione.
Nei primi anni del diciannovesimo secolo la casa era stata trasformata in una residenza borghese. A entrambe i lati dell’edificio erano state costruite due ali, a formare i tre quarti di un quadrato; era stata usata della pietra color miele, con grandi finestre a ghigliottina e liscia ardesia azzurra per il tetto.
Il tratto distintivo della scrittrice è proprio questa scrittura abbondante che descrive luoghi, riti quotidiani e sentimenti con la stessa perizia. Jane Howard affianca a dialoghi e monologhi interiori il cibo che giace sul piano di marmo della cucina:
i resti di un taglio da arrosto in una gabbia di mussola, pezzi di budino di riso e blancmange su piatti da cucina, latte messo a cagliare in una ciotola di vetro molato, vecchie caraffe scolorite e sbeccate piene di intingoli […)], prugne stufate in uno stampo da budino e infine […] l’enorme argenteo salmone, l’occhio opaco per la recente cottura, lungo disteso come un sommergibile spiaggiato.
La ricchezza di questa frase non è un retaggio da Aga-saga, ma il metodo certosino con cui la scrittrice prepara il terreno per le vicende della famiglia Cazalet. Questo terreno, spesso identificato con Home Place, rimane solido e rassicurante quasi fino all’ultimo, quando i guai finanziari separeranno la famiglia dalla propria residenza.
Anche in questa saga ci sono, immancabili, le “ragazze ingenue”, ma tre in particolare sono specchio della scrittrice: Louise, Polly e Clary, le cugine Cazalet, ciascuna raccontata dalla fanciullezza alla vita adulta. Louise è bellissima, vittima in adolescenza delle molestie del padre, protagonista di un matrimonio sbagliato in giovane età e poi, dopo il divorzio, attrice dalla scarsa fortuna. Sono tutte reminiscenze della vita privata di Howard. A Polly Cazalet, invece, l’autrice assegna il lieto fine che lei stessa non ha mai avuto, attribuendole una famiglia solida con il fedele marito. Ma più di tutte è Clary Cazalet a fare la differenza. Clary, nella saga, è una “Jo March”: ha una spiccata vocazione da scrittrice che coltiva sin da ragazzina e una indipendenza di pensiero singolare nell’intera famiglia.
L’amore, per Clary, era sempre stato qualcosa di totale e serissimo.
Ecco l’amore che torna inesorabile, ma questa volta Jane Howard supera la semplice dimensione dell’eroina romantica e la arricchisce di nuove sfumature. L’amore che cerca Clary non è solo quello di un compagno, che comunque avrà, ma soprattutto quello del padre, della matrigna immatura, della famiglia intera e talvolta anche dei suoi datori di lavoro. Clary sopravvive ad un aborto clandestino, l’amore travagliato con un uomo molto più grande, il tradimento e la continua precarietà finanziaria, esperienze che le danno modo di aspirare ad una realizzazione personale che vada oltre il matrimonio. Riesce a scrivere una commedia, di cui cura la rappresentazione teatrale a Londra, vivendo contemporaneamente il suo ruolo di moglie e madre con malcelata difficoltà, “prostrata dalle faccende domestiche che andavano fatte e poi rifatte all’infinito, dai pasti preparati e subito divorati”. Questo dettaglio la rende meno eroica e più fallibile, ma in una nuova maniera per Howard: tutte le difficoltà e i momenti di crisi di Clary non riguardano più solo l’amore non corrisposto, ma il suo posto nel mondo come donna. Non è un caso che Howard attribuisca proprio a lei l’unica menzione al femminismo dell’intera saga. In Confusione (Fazi Editore), il terzo volume, Clary dialoga con Archie, il caro amico di famiglia dei Cazalet, e gli chiede:
«[…] Credi che una volta finita la guerra anche le donne saranno prese più sul serio?
«Non ne ho idea. Senti di non essere presa sul serio?».
«No di certo! Alle donne vengono appioppati i lavori più noiosi e non sono nemmeno pagate quanto gli uomini. […]».
«Sei femminista Clary?»
«Può darsi, lo scopo del socialismo è rendere il mondo più giusto. E io sono a favore».
«Ma la vita non è giusta».
«Lo so, in un certo senso è così. Ma questo non deve impedirci di renderla più giusta, per quello che possiamo. Sì, credo proprio che sarò uno di quelli».
«Socialista o femminista?»
«Tutt’e due. Volere più giustizia per le donne fa parte di volere più giustizia per tutti. […]».
Nel 2013, a 90 anni, Howard scrive ancora con la lucidità di sempre e, in una delle sue ultime interviste, si definisce una femminista in ebollizione, “mi piace la compagnia delle altre donne ed empatizzo con loro con grande trasporto”. La sua eredità è proprio in questa frase che allude alle sue donne affamate d’amore, le ragazze ingenue, e alla loro evoluzione nel tempo di cui Clary Cazalet è la testimonianza più fulgida. Fino alla fine, Elizabeth Jane Howard sarà devota a queste donne e al racconto della loro verità.