Tra le uscite di questo ottobre 2019, grasso nella varietà di proposte e di novità che ha portato con sé, c’è anche questo album che arriva direttamente da Los Angeles e che racchiude dentro di sé un particolare calore. Si tratta dell’ultimo lavoro degli Allah-Las, che va a consolidare ulteriormente il suono questa compagine losangelina.
Il loro è da sempre un rock psychedelico, che tende al folk e che ha un’attitudine quasi lo-fi a tratti, che è molto alla moda. Nei tre dischi precedenti ci hanno raccontato la fascinazione per luoghi lontanissimi, sia fisicamente che nel loro immaginario, mista al desiderio di evasione. Hanno provato a raccontare le meraviglie del mare e il luccichio della sabbia, provando a racchiudere nel rock, lo spirito di primordiale della natura.
Giunti al quarto LP, possiamo dire che Miles Michaud (voce, chitarra), Matthew Correia (percussioni), Spencer Dunham (basso) e Pedrum Siadatian (chitarra solista) hanno in un certo senso messo da parte questo costante desiderio di evasione, ritornando a casa, a L.A. La poetica degli Allah-Las o dei LAHS, che è il nome del disco ma anche il modo in cui amici e fan si riferiscono a loro, è da sempre legata alla voglia di creare dei suoni e delle melodie che per le influenze esulano dallo spazio fisico.
Colgono dall’esperienza collettiva ma anche individuale, mostrando in questo lavoro una crescita nell’arrangiamento e nella composizione. Questo ha fatto sì che si creasse e si definisse il sound degli Allah-Las, che negli album precedenti suonavano più confusionari e indefiniti. Dopo aver viaggiato attraverso tutti i continenti del globo, visitando anche quei luoghi sui quali fantasticavano, hanno deciso di spostarsi dall’altro lato del cannocchiale, guardando di nuovo al punto da cui erano partiti, con una consapevolezza nuova e osservando da lontano con un distacco diverso che sembra talvolta mescolarsi con la nostalgia.
Il disco si apre con Holding Patterns che invita l’ascoltatore ad abbandonare le sue abitudini e suoi ordinari schemi per aprire la mente e mettersi in viaggio. C’è Prazer Em Te Conhecer, dove Correia canta in portoghese l’incontro con un amico o uno straniero, un dialogo sulla strada che si è fatta e su tutto ciò che ancora il viaggio può offrire, accompagnato dalla chitarra che somiglia quella di Mac De Marco con un drink “tiki” in mano su una spiaggia delle Hawaii.
Polar Onion è il pezzo che ho preferito, il racconto di quello che potrebbe essere un cowboy solitario, partito per ritrovare sé stesso ma che si accorge durante il suo vagare di essere solo e di non riconoscersi più, a causa di tutto ciò che ha abbandonato e dell’uomo che è diventato con il peso dell’esperienza sulle spalle. Si chiude con Pleasure, un brano simpatico che scimmiotta un pezzo folk iberico, mantenendo quell’anima americana anni ’60.
Si tratta di un bel lavoro, ben calibrato nella varietà dei pezzi, che mantiene invariato il cuore del suono di questa band, ma che ci rende partecipi di una crescita sotto molti aspetti. Ciò che apprezzo di questo album, ma in genere dei LAHS è la forza evocativa, che a partire da un brano di poco meno di tre minuti, ti trasporta in un luogo lontano o racconta la storia di un personaggio misterioso, lasciando carta bianca all’immaginazione. Sarà la psichedelia, saranno i suoni morbidi o il groove particolarmente avvolgente, non lo so…
Questo disco è una sorta di raccolta di cartoline dal mondo, che si perdono durante la spedizione e dopo una serie di divagazioni arrivano a destinazione ancora più cariche di significato. Ingiallite e sbiadite come i suoni vagamente anni sessanta delle chitarre degli Allah Las ci ricordano che l’essenza di partire per un viaggio sta anche nel poter tornare a casa a raccontarlo.