“Leggo perché altrimenti la vita sarebbe così noiosa” dichiarava qualche settimana fa Zadie Smith durante la presentazione del suo ultimo libro. Una frase in cui molti di noi si ritroveranno: leggere è indubbiamente una condizione necessaria per sopravvivere, un antidoto alla monotonia e un mezzo per comprendere gli aspetti più reconditi del nostro io. Ma nel frenetico mondo di oggi, è sempre più difficile dedicarsi alla lettura; come evidenzia Jonathan Crary nel libro 24/7, la società è ormai basata su uno stile di vita non stop che ruota attorno al lavoro e che ci fa perdere contatto con noi stessi. Diventa allora fondamentale fermarsi e, almeno per un weekend, farsi coinvolgere in un festival letterario nel cuore di Notting Hill. Il FILL – Festival of Italian Literature in London è ormai un appuntamento fisso per gli amanti della parola scritta. Ideato nel 2017 un gruppo di autori, giornalisti, traduttori e accademici italiani di base a Londra, la manifestazione è giunta quest’anno alla terza edizione, la più ricca, come avevano anticipato nel programma gli organizzatori.
Foto 1: Giulia Delprato. Foto 2: Luca Migliore
Tra questioni sociali, letteratura e musica
A inaugurare il festival è stato un workshop di traduzione con Livia Franchini, scrittrice e traduttrice. A seguire una discussione sulla working class con gli autori Anthony Cartwright – che abbiamo intervistato qui a pochi giorni dal festival – e l’italiano Alberto Prunetti. Interessante anche l’indagine sul futuro della democrazia nell’incontro con la giornalista e autrice turca Ece Temelkuran e Andrea Mammone. La figura eroica e controversa di Diego Armando Maradona è stata invece protagonista del talk con Alessio Forgione dedicato a Epic Diego: incontro che ci ha dirottato più a Sud, direzione Napoli. Del resto è proprio nello spirito del festival creare un ponte immaginario tra l’Italia e il Regno Unito.
Foto 1 e 3: Luca Migliore. Foto 2: Giulia Delprato
Vi avevamo già introdotto alle atmosfere del talk Natural Born Sorcerers, attraverso le interviste alle due protagoniste dell’incontro: Loredana Lipperini e Rebecca Tamás. Un incontro che ci ha – letteralmente – stregato, per una serata magica ed evocatoria. I talk e gli incontri ci hanno preparato per bene allo spettacolo di Francesco De Carlo, che ha portato la sua satira al FILL con My Personal Brexit – e c’era proprio bisogno di sdrammatizzare un po’ in questo momento della storia tra le altalene di Brexit. Per chiudere il sabato festivaliero ci voleva invece un dj set al bar del Coronet Theatre.
Il dj set al Coronet nello scatto di Luca Migliore
Nella seconda giornata erano in programma il talk Journey to the End of the World, il dibattito sui lavoratori migranti The Italian Job e l’incontro con Rachel Cusk e Edoardo Albinati. Di cambiamento climatico si è parlato in Hot Art – Making Art In A Warming Planet, mentre Agostino Ferrante e Gary Younge hanno affrontato il delicato tema della criminalità giovanile. A FILL c’è stato spazio anche per un incontro incentrato sullo scrivere di musica, che ha visto la partecipazione di Ian Penman e Matteo B. Bianchi. In un’offerta eclettica e diversificata, abbiamo avuto modo di seguire alcuni degli interessanti dibattiti che hanno preso vita nella suggestiva cornice del Coronet Theatre.
Qualche momento di FILL 2019
Nell’incontro Working Class, Writing Class, Anthony Cartwright e Alberto Prunetti si sono confrontati sul tema della classe operaia, esplorato ampiamente nei loro romanzi. Prunetti, autore di 108 metri e Amianto, ha spiegato come nella letteratura italiana mancasse una corretta rappresentazione di questa classe sociale: «Non c’erano fonti italiane a cui potessi agganciarmi nel racconto della working class. In “Amianto” dovevo costruirmi la strada da solo, mentre in “108 metri” c’era più esperienza, soprattutto grazie agli scrittori inglesi. La letteratura industriale degli anni ’60 non mi soddisfaceva perché era scritta da intellettuali che provavano empatia per la classe operaia e ne coglievano l’alienazione, la ripetizione e l’insoddisfazione. Questi operai tristi però non assomigliavano a mio padre; io volevo raccontare l’umorismo e l’irriverenza di questa classe.»
Anthony Cartwright e Alberto Prunetti. Foto 1: Martina Ciani. Foto 2: Giulia Delprato.
Nell’affrontare la questione della working class – ha sottolineato il moderatore del talk Paolo Nelli – c’è il rischio di incorrere in una certa nostalgia. «È vero» ha commentato Prunetti «ma per me la nostalgia non può essere una categoria politica. Il passato non ritorna e se lo fa è tossico. Il presente è frutto di condizioni che si sono trasformate; se io guardo al passato è per capire da dove veniamo. La nostalgia è un espediente con cui attraggo il lettore dentro la storia per poi colpirlo con un pugno nello stomaco.»
«Nel Regno Unito c’è un’ossessione per la questione di classe» ha ammesso Cartwright. «Ci sono modi diversi per rappresentarla e chiamerei il sistema del nostro paese, di caste più che di classi. Anche nei film non c’è una rappresentazione corretta di quello che siamo. La questione della classe non è soltanto un’ossessione, ma qualcosa che avvelena la società.»
Momenti al bar del Coronet, foto Luca Migliore
Continuando sul tema sociale, il giornalista Daniel Trilling e l’attivista Aboubakar Soumahoro sono stati protagonisti di un toccante confronto sul tema dei migranti: «Uno dei nostri compiti» ha dichiarato Soumahoro «è dare un volto agli invisibili e dignità alla realtà anche quando è manipolata; uno degli strumenti per farlo è il sapere. L’istruzione, come diceva Nelson Mandela, è l’arma più potente che abbiamo per cambiare il mondo. La tesi che sostengo nel mio libro “Umanità in rivolta” è che prima di attribuire un’etichetta ad una persona, questa deve essere riportata nella sua integrità umana.»
Trilling ha evidenziato come l’attenzione dei media nei confronti delle notizie sull’immigrazione sia spesso incoerente: «Mi riferisco ad un fatto accaduto pochi giorni fa proprio nel Regno Unito, quando in un camion sono state scoperte 39 persone prive di vita. Se questo camion fosse arrivato nel Regno Unito con delle persone vive, una buona parte dei media le avrebbe dipinte come criminali. Ma poiché questi immigrati sono deceduti, i media si sono preoccupati delle condizioni in cui queste persone hanno affrontato il viaggio. Nessuno si è chiesto perché questi individui siano arrivati a scegliere un mezzo illegale per raggiungere il Regno Unito, o si è fatto domande su ciò che succede nel paese che lasciano e il ruolo che ha la nostra nazione nel creare certe situazioni in altre parti del mondo.»
Daniel Trilling e Aboubakar Soumahoro. Foto Giulia Delprato
Uno degli eventi più attesi di questa edizione del FILL era il talk sul ruolo del romanzo nella contemporaneità con Rachel Cusk e Edoardo Albinati – autori rispettivamente della trilogia Outline e de La scuola cattolica (vincitore del Premio Strega nel 2016) – moderati da Claudia Durastanti (che abbiamo intervistato qui in occasione dell’uscita de La Straniera). A creare un legame tra il lavoro di Albinati e Cusk è l’uso della prima persona narrante: «L’uso della prima persona facilita per molte ragioni, ma può diventare quasi una forma di ricatto verso lo scrittore.» ha spiegato Albinati. «In un episodio de “La scuola cattolica” racconto la prima volta che mi sono confessato e ricordo un forte imbarazzo che ho cercato di trasferire nel romanzo. Nello scrivere storie personali vorremmo essere profondamente sinceri, ma è molto difficile arrivare alla chiave di certi sentimenti, è un problema di tecnica che a che fare con la letteratura, non con la vita».
Rachel Cusk, Claudia Durastanti, Edoardo Albinati. Foto Giulia Delprato
«Il peggior tipo di scrittura può essere quello fatto in prima persona.» ha aggiunto Rachel Cusk. «Nel concepire i romanzi della trilogia, ho immaginato la protagonista come una sorta di detective che riesce a capire se le persone che incontra stiano dicendo la verità attraverso le frasi che pronunciano.»
Nei libri che vanno a comporre la trilogia di Outline, la Cusk reinventa il romanzo, usando una forma che giustappone narrativa e storia orale: «C’è una grande tradizione letteraria non solo britannica, ma anche americana e ho avuto bisogno di molto tempo prima di sentirmi libera di fare ciò che volevo» ha spiegato la scrittrice. In un’epoca incentrata sulla tecnologia e in cui tendiamo alla facile distrazione, il ruolo del romanzo diventa quello di sopravvivere alle innovazioni: «La letteratura ha dovuto combattere molte cose, come la povertà e l’accesso all’educazione» ha riflettuto la Cusk. «C’è stato un grande cambiamento, tutto si muove più velocemente e non è più possibile tornare ad un mondo senza computer. Ma non credo nella morte del romanzo». «I libri sono belli perché raccontano un mondo perduto» ha poeticamente concluso Albinati.
Foto 1: Momenti FILL, Luca Migliore. Foto 2: Rachel Cusk, Martina Ciani
A chiudere il festival (almeno per noi de L’indiependente) è stato l’incontro moderato dallo scrittore Marco Mancassola, On Writers and Spinning Vinyl con Ian Penman e Matteo B. Bianchi. Entrambi, segnati da un comune background provinciale (quello del Norfolk nel caso di Penman e l’area circostante a Milano per B. Bianchi), hanno trovato nella musica un’evasione dalla grigia realtà suburbana: «La mia adolescenza in termini musicali equivaleva alla carestia» ha spiegato B. Bianchi «non avevamo molte riviste, MTV è arrivata molto dopo rispetto all’America e al Regno Unito. C’erano pochi stimoli e quelli che avevamo li seguivamo in maniera religiosa». Per lo scrittore la rivelazione è arrivata con i magazine inglesi come NME: «Il New Musical Express analizzava i testi dei Pet Shop Boys come se fossero quelli di Dylan. A quel punto ho pensato che i miei gusti musicali fossero giusti, che non ero soltanto io a seguire questi gruppi.»
Il New Musical Express è anche la rivista in cui nel 1977 esordì Ian Penman, interessandosi principalmente alla musica black: «Nel 1979 la cosa più interessante nel Regno Unito era il nuovo libro di Martin Amis. Ma era un romanzo in cui non riuscivo a ritrovarmi, non c’era niente di me e dei miei amici. NME rispecchiava invece la cultura giovanile, aveva scrittori da tutta la nazione, soprattutto dalle province». Anche B. Bianchi condivide l’idea di ritrovare nella musica qualcosa di sé: «Io analizzavo i testi degli Smiths come si studia Dante a scuola e lo facevo semplicemente perché parlavano di me.»
Foto 1: Ian Penman, Marco Mancassola e Matteo B. Bianchi – Luca Migliore. Foto 2: Marco Mancassola – Martina Ciani
B. Bianchi è autore di un libro su Yoko Ono dall’inequivocabile sottotitolo “dichiarazioni d’amore per una donna circondata d’odio”: «Ho scritto un libro su Yoko Ono perché è un soggetto affascinante, senza dubbio la donna più odiata del rock. Ma quest’odio non è giustificato. Ci tenevo a far sapere qualcosa di lei perché quando le persone dicono di odiarla non sanno neanche il motivo.»
Ian Penman ha da poco pubblicato la raccolta di saggi It Gets Home This Curving Track, in cui analizza la carriera di leggende come Charlie Parker, James Brown, Donald Fagen e Elvis Presley. Il Guardian ha definito il libro una lettura essenziale per gli amanti della musica: «Ogni pezzo che compare nel libro era inizialmente una recensione sulle autobiografie di questi artisti, non ho scelto personalmente nessuno dei saggi perché mi sono stati suggeriti. In seguito, quando è arrivata la possibilità di farne un libro, ho notato che c’era un tema che legava ogni articolo. Qualcuno mi ha detto che questo tema era la tragedia che sta alla base del successo in America. Per me invece il filo conduttore del libro è la divergenza tra cultura black e quella bianca, come questa possa diventare bella in certe situazioni, mentre in altre possa condurre alla tragedia.»
Il team FILL nello scatto di Giulia Delprato
Con la conclusione dell’incontro, si spengono per noi le luci del FILL. Sostiamo ancora un momento nel foyer del Coronet Theatre, per assaporarne la vibrante atmosfera. Conosciamo bene quel sentimento che ci assale non appena varchiamo la porta che si riaffaccia sulla normalità; lo abbiamo già provato nel lasciare un festival del cinema o di musica. È una sensazione che ritroviamo nelle parole finali di un racconto di Fitzgerald: “Chi per primo inventò la consapevolezza commise un gran peccato. Perdiamola per alcune ore”.