Who is in Love Today? È una domanda che fa Sharon Van Etten al suo pubblico, appena si siede al synth per annunciare Black Boys on Mopeds, chiesta in prestito a Sinead O’Connor per l’occasione. Domande come quelle che si porta con sé l’esibizione di Mediterraneo o, anche, la forza sonora dei Cloud Nothings. Ci circondano, non ci lasciano mai, come questioni in sospeso a cui non sappiamo dare risposta. Il racconto dei tre giorni di Arti Vive parte da qui, dal motivo per cui considerare Arti Vive un festival come tutti gli altri fa correre, forse, il rischio di limitare la sua effettiva portata, in un periodo che soffre la mancanza di luoghi o situazioni in cui l’inclusione artistica si accompagna a quella sociale. Arti Vive, nel vero senso della parola, parte di un processo che stravolge per quattro giorni l’anno un piccolo paesino nella provincia modenese con spettacoli di teatro, performance artistiche e concerti che si aprono improvvisamente al mondo, tanto per chi – da fuori – lo frequenta e per chi si esibisce. Un porto aperto, in cui poter attraccare e lasciarsi contaminare.
Non è una questione di climax quanto una costante riproposizione giornaliera, fatta di crescite e rotture, che partono dai suoni ruvidi, disciplinati dei Cloud Nothings, di momenti improvvisamente calmi e allo stesso tempo furiosi. Spazi larghi, come quelli stranamente ampi fra Dylan Baldi e gli altri componenti della band, e poi improvvisamente strettissimi come fra la batteria e le gambe di Jayson Gercyz. Una serie di incastri e paradossi, fra garage, polvere e sputi. L’idea è chiara fin dall’inizio di The Echo of the World e non si arresta se non con il fitto strumentale di Dissolution con cui i ragazzi dell’Ohio fanno a pezzi la scena, irrobustendo le braccia, facendo tirare le giugulari. Un tuffo nelle gelide correnti del Cuyahoga, gli inverni freddissimi e l’estate in cui non si respira, una linea di settemila chilometri che unisce Cleveland a Soliera. Modern Act e Part of Me riprendono da dove si era interrotto Baldi per la prima (e ultima) sosta prima del saluto dal palco, composto, nervoso, estremamente punk. Come i suoni del concerto che abbiamo appena sentito. Composto, nervoso, estremamente punk. Un mondo a parte, per una sera, piombato in una Piazza Lusvardi che accenna un timido pogo, poi si lascia partire, come tributo, o ringraziamento. Non è rabbia, non è violenza. Sono suoni puliti, distorsioni accorte che non cercano complicità ma solo un modo per esplodere. Così, come per magia, come una tempesta che si abbatte e poi si calma, torna una pace insolita, naturale, accompagnata dagli ultimi colpi di Wasted Days. Siamo solo all’inizio, come dicevamo, ma la struttura di Arti Vive non è nata per fermarsi.
L’ensemble emotiva di Mediterraneo, aperta da Marinai, è parte del cambiamento costante, di rifrazioni ed esecuzioni in continua evoluzione. Un progetto di improvvisazione sonora che raccoglie dentro più di un’identità, le raccoglie e se ne fa forza. Un’idea che raggruppa il trittico delle macchine James Holden – Machweo – Bienoise, alle batterie elettroniche di Populous e quelle analogiche di Flu (Inude) – Antonio Rapa, i fiati di Emma-Jean Thackray – Any Other – Laura Agnusdei, le tastiere di Giulio Stermieri e la chitarra di Dario Martorana. Un ensemble, un super gruppo, una costellazione che si muove su ritmi compositi, potenti e mai fissi per un attimo, come il mare da cui provengono e rappresentano. C’è tempo per un free jazz, per delle tinte più nere, fino alla saudade o un accenno downtempo. Un’onda che si scontra contro lo scoglio, o forse è nata direttamente per abbatterli, creando una commistione oltregenere. Un fronte unito, che è impossibile distaccare (per nome, per suoni, per ricerca) dalla stessa componente di cui è fatta Arti Vive. Quello spazio che dicevamo in apertura, in cui l’arte si accessibile improvvisamente, come se stessimo osservando tutto non più da un punto più alto, ma immersi, nella piazza piena, fra gli strumenti, direttamente sul palco. La bellezza di Mediterraneo sta probabilmente in questo. Nel contatto immediato – ma mai banale – con una cosa nuova, nell’indagine sul ritrovare tutti i singoli interpreti che, a turno, si concedono il ruolo di protagonista, anche solo per un attimo, prima di ritornare immersi nel gruppo. Un cantiere aperto in cui riusciamo ad accedere per un momento, fra la fine del live e una foto di gruppo dentro al cinema a due passi dal palco. Ci accorgiamo della semplicità di questi rapporti parlando con James Holden per qualche minuto, o mentre li osserviamo riposarsi dopo aver dato tutto. Scherzare e giocare nel momento finale, quando tutto si trasforma in applauso. Un momento fra amici, che unisce questa struttura accogliente per una prima – speriamo non ultima – esecuzione di gruppo. Mediterraneo è probabilmente il centro del discorso che fa Arti Vive. Di non accontentarsi di generi di tiro ma di dare la possibilità di scoprire, di andare oltre, anche su sonorità non sempre semplici, fatte di improvvisazioni meditate, che richiedono una necessità di ascolto superiore, dal punto di vista emotivo ma, ancora di più, empatico.
Nella breve camminata fra il centro industriale che separa Piazza Lusvardi e il Circolo Arci Dude, dove va in scena l’after party, accediamo a un’altra parte di Soliera, un quartiere tranquillo, di fabbriche accese nel silenzio, del riposo lavoratore che si tiene vivo nella saletta del centro culturale. Una piccola storia emiliana, sul dare spazio a realtà giovanili, per un sistema virtuoso che si premia e crede nelle possibilità. Ce ne accorgiamo quando un ragazzo ci si avvicina stupito, per chiederci come sia possibile trovare una realtà simile. Quelle domande che, in fondo, non sono mai state solo nostre.
Il punto conclusivo di Arti Vive coincide con quello più emozionate. Sharon Van Etten la vediamo poco prima del concerto, mentre si stanno esibendo i Malihini, mescolando l’indie rock con una buona dose di complicità e dei suoni che viaggiano alla perfezione. Sharon Van, lì, in mezzo a tutti gli altri, fra chi le chiede un autografo o la circonda per farsi fotografare. Calma e trasparente, una versione che sul palco si trasforma per una sorta di trascinamento emotivo, in totale sicurezza ma, in fondo, piena di emotività. Sono due le Sharon Van che si alternano. Quella che si impadronisce del palco, quasi senza apparente fatica, e quella che si commuove, sul pezzo di Sinead O’Connor o quando si blocca un secondo prima di ogni canzone. La vediamo salire sul palco dal backstage, fissare le scale con uno sguardo sicuro, tirare un respiro e poi attraversare la prima di una serie di ondate di affetto cieco, quasi strabordante, che la accoglie e la incoraggia. Jupiter 4, Comeback Kid, No One’s Easy to Love sono l’apertura verso quel mondo che raccontavamo. Malinconico ma aperto, dolce, accogliente. Sharon Van è tutto, una performer, una amica, un’erede, forse sopravvissuta, dei ricordi di Patti Smith nella sua volontà di non fermarsi, di andare dritta al centro dei significati senza paura. La storia del concerto di Sharon Van Etten è proprio questo, un susseguirsi di immagini, fra il teatro e l’ipnosi, fra i colpi più altfolk e quelli che si sono presi il gusto dell’elettronica. Sorretta da una voce che ti strega e quel carisma introspettivo che non concede possibilità di fuga. È tanto la sofferente Black Boys on Mopeds quanto la ragazza di Seventeen, in cui libera quell’energia, la compostezza di You Shadow fino ad All I Can. Ciò che più ci colpisce, fin quasi alla commozione, accade nell’encore. Quando poco prima di salutarci ritroviamo una dedica, che si concentra in Stay. Un finale non scontato, realizzato con una reale volontà di stravolgere la scaletta per dare un momento, indelebile, a qualcuno di noi.
Sharon Van Etten rappresenta l’immagine di un’artista unica, capace di mescolare più sensazioni con il solo cambiamento di voce, con la sola volontà di esprimersi. Alla domanda da cui siamo partiti – Who’s in Love Today – probabilmente la risposta è scontata. Sharon Van ti prende per mano, come nell’ultimo album, e ti porta oltre le porte del sentimento personale, trasformandolo in un’esperienza di condivisione ed estasi collettiva. Proprio il concetto di arte viva, di cui questo festival si riempie.