Fotografie di Alessia Naccarato
È inutile girarci troppo intorno, la vittoria del milanese Alessandro Mahmoud alla 69a edizione del Festival di Sanremo è stata uno dei punti di svolta nel panorama della musica popolare italiana di questi ultimi anni. Spinta certamente dalla giuria di qualità e da quella della sala stampa, ma seguita immediatamente da un successo senza precedenti sulle piattaforme di streaming digitale – la sua Soldi, con la produzione di Charlie Charles e Dardust, ha impresso una direzione imprevedibile ai gusti di centinaia di migliaia di adolescenti, e non solo, che si sono improvvisamente trovati davanti a un personaggio praticamente misconosciuto fino a soli pochi giorni prima. L’arrivo dell’album Gioventù Bruciata – anticipato nell’uscita visto il grande successo sanremese – ha confermato tutto quanto di buono le esibizioni sul palco dell’Ariston avevano già lasciato intravedere.
Già, perché accanto a un timbro assolutamente splendido e una tecnica vocale affinata nei tanti anni di studio è innegabile che il successo di Mahmood sia passato anche per una notevole presenza scenica. Sia chiaro: nulla che possa far pensare al classico animale da palcoscenico, al modello importato della rockstar maledetta, ma Alessandro – e del resto quella è la cifra dei migliori di un mondo come il suo che oscilla tra hip hop, canzone d’autore ed elettronica – ha mostrato fin da subito un magnetismo del tutto particolare capace di dare maggiore spessore a una frase, a un inciso, anche attraverso lo sguardo dei suoi occhi scuri come anche un movimento – studiato certamente – ma che lui, con il tratto distintivo delle sue camicie variopinte, è in grado di portare in scena con assoluta naturalezza ed efficacia.
Va detto che Mahmood, oltretutto, pur catapultato praticamente nell’arco di una sera a una popolarità cui non era abituato, non è certo un parvenu ma un ragazzo che non solo ha studiato e ha saputo costruire il suo percorso di approdo al successo ma che è anche parte di una scena ampia e trasversale che, a differenza dei ragazzi dei talent, ha conosciuto bene il significato della parola gavetta e, cosa ancora più importante, ha abbandonato il concetto di artista solitario per affidarsi a un lavoro di squadra fatto d’interconnessioni e di un continuo movimento da e verso le proprie radici che ne fanno uno dei suoi punti di maggiore forza.
Per com’è nato il suo successo, grande era l’attesa per questo Tour che fa seguito al bagno di folla degli instore e che ci ha mostrato nelle tappe da Livorno a Napoli, da Firenze a Roma – il 17 giugno al MAXXI – (e che continuerà dalla fine di giugno toccando tra le altre Senigallia, Olbia, Bologna e San Vito Lo Capo) un ragazzo per la prima volta a contatto con una folla adorante di fan della vecchia, certo, ma soprattutto della nuova guardia.
Il suo è un pubblico sicuramente eterogeneo per la curiosità e l’interesse che la sua ascesa ha provocato ma anche per la commistione di diverse matrici che ne caratterizzano la musica con quello stare sempre con un passo diverso in mondi anche disparati tra loro.
Mahmood si presenta con una vera band che, naturalmente, lungo l’ora circa di concerto non lascia da parte l’elettronica e i beat dei brani, ma allo stesso tempo non solo tiene benissimo il palco dando alle canzoni una maggiore profondità per la dimensione dal vivo ma è bravissima a creare uno spazio sonoro anche fisico e più umano in cui il ragazzo milanese di origini egiziane che pure tradisce – fortunatamente – una certa emozione, può muoversi con il supporto degli altri in un continuo scambio.
Colpisce l’età dei ragazzi del pubblico, la maggior parte giovanissima che per tutto il concerto non abbandona letteralmente il proprio smartphone puntato sul palco. A chi come noi è anagraficamente più grande appare – così massivo com’è – un fenomeno sempre inspiegabile, come tanti Serafino Gubbio che hanno bisogno di un costante filtro fra sé e la realtà ma è un pensiero che ci attraversa la mente solo un attimo e viene subito allontanato. Perché c’è in queste facce, in questa folla di ragazzi, alcuni addirittura accompagnati dai genitori, qualcosa che rimanda – e davvero non vorremmo sbagliarci – all’innocenza. C’è nelle file, che dal sottopalco arrivano fino al fondo della sala nei numerosi sold out, qualcosa che assomiglia a una gioia condivisa e pulita, un modo di stare al mondo e dentro le cose che sembra lontano anni luce da un’idea di musica come di scappatoia che porti lontano dalle oscurità quotidiane, una voce anche drammatica che sappia però farsi anche espressione di un disagio. Qui c’è invece una sorta di meglio (nuova) gioventù raccolta nello spazio di un concerto che però sembra mostrare il lato migliore del paese, quello che non si arrende alla paura, che non guarda con nostalgia a un passato nemmeno così recente perché ne conosce quasi per istinto i pericoli. Che dalla vita non vuole scappare e anche attraverso la musica vuole guadagnarsi il diritto a essere felice e a pretendere il rispetto di diritti che si pensavano – e più non sembrano – sacrosanti e inviolabili.
Il moroccan-pop di Mahmood con le sue storie di abbandoni paterni ma anche con l’incanto e il disincanto e la freschezza quotidiana di amori sbagliati o complicati è la colonna sonora per occhi che si sono da poco affacciati alla vita e sognano – almeno è quello che ci piace immaginare – un paese diverso. Non è una mera questione politica, non lo è affatto, non almeno nel suo discorso più misero e contingente, ma è una questione di prospettiva sociale e generazionale. È una sensazione che avvertiamo fin da subito come nella data napoletana quando ad “accoglierci”, all’ingresso, ci sono due ragazzi poco meno che ventenni che si baciano tra loro senza paura di attacchi omofobi. E che continua nelle ragazzine che si tengono per mano sotto palco e che forse sono al loro primo concerto. Ancora negli occhi di un padre che stringe a sé la figlia e sa – perché lo leggiamo nei suoi lineamenti distesi, nel sorriso che gli attraversa l’intero viso – che quello è uno spazio sicuro a differenza di quello occupato con violenza dall’odio macinato ogni giorno sui social e sui giornali. Lo è infine nella piccola Sofia che Mahmood raccoglie dalle prime file e che – con i suoi cinque anni – è certamente la più piccola fan presente alla data partenopea al Duel Club di Pozzuoli.
Mahmood sorride, fa battute, scherza col pubblico sciogliendosi canzone dopo canzone. Regala interpretazioni su cui era anche lecito aspettarsi qualche difficoltà dal vivo e che invece supera brillantemente con la forza di un falsetto che si è visto raramente in Italia. Accompagnato dalle immagini che scorrono lungo lo schermo bianco da cinematografo alle sue spalle, snocciola una dopo l’altra le sue canzoni secondo una tracklist che non tiene conto dell’ordine del disco. Ma mescolando le carte, il risultato non cambia di certo: ci sono certo alcuni pezzi più deboli ma anche una manciata di pezzi impressionanti per scrittura, accuratezza, tenuta live.
Vale per il ritmo di Soldi come per Anni 90 che regge benissimo la scena live anche in assenza dell’apporto di Fabri Fibra; stesso discorso in crescendo per la malinconia agrodolce di Gioventù Bruciata e la delicatezza di una notte milanese di confessioni che è lo scenario che sorregge la tessitura crepuscolare de Il Nilo nel Naviglio. Ma è con Uramaki – ancora una volta – che Mahmood fa esplodere il pubblico: è la nostra canzone preferita, è la canzone preferita di Alessandro che sa bene di aver tirato giù un piccolo capolavoro pop che trasuda tutto quello che lo rende grande, un misto di attenzione e precisione, di dedizione e qualità nella scrittura capace di sciogliere nella metrica una sorta di poesia urbana quotidiana tenendo insieme una timidezza naturale come anche una forma quasi anacronistica di educazione e una faccia da schiaffi / sono i tratti orientali, dimmi che posso farci.
Alla prova del pubblico Mahmood scopre un paese pronto ad accoglierlo, giovanissimi verso i quali lui può diventare come il messia di una nuova religione pop che sappia abbandonare i vecchi consunti stilemi che la cecità radiofonica e discografica ha colpevolmente alimentato per consegnare una prospettiva diversa, un’alba che sappia dare una luce contemporanea ai desideri dei tanti scaraventati in un mondo che non sa comprenderli o accoglierli. È un ragazzo Mahmood, in fondo poco più grande di loro, ma la leggerezza del sorriso e la malinconia dentro al suo sguardo lasciano ben sperare che sappia non tradire le aspettative di un paese che si fa sempre più reale.