Vice – L’uomo nell’ombra (2018) è il film che segna il ritorno del regista Adam McKay, che negli anni precedenti si è fatto conoscere dal grande pubblico grazie al film La grande scommessa. McKay torna sulle scene dopo tre anni e lo fa creando una pellicola irriverente, scorretta, comica – d’altronde il regista proviene dalla scuola del Saturday Night Live. Questa volta però la sua ironia non si scaglia contro il sistema finanziario americano ma l’America intera, i mezzi di comunicazione, la Casa Bianca, regalandoci il ritratto di uno dei politici più silenziosi e influenti della storia: Dick Cheney.
Il film racconta la vita di Cheney, interpretato da un camaleontico Christian Bale, dall’arrivo in politica fino alla vicepresidenza degli Stati Uniti sotto il governo di George W. Bush (Junior). Da uomo rissoso e ubriacone, a burattinaio del presidente protagonista di una delle pagine più buie della storia americana (l’attacco dell’11 settembre), sempre però al fianco della moglie Lynn (Amy Adams), colei che lo guiderà alla scalata al potere, e lo aiuterà a diventare un uomo per bene (o quasi), proiettando nel marito tutte le aspirazioni e i sogni che lei non avrebbe mai potuto realizzare in quanto donna in un mondo governato dagli uomini. Solo nel momento in cui una delle loro figlie farà coming out, la donna si scoraggerà, ma non Cheney: l’uomo quieto, silenzioso, sempre nell’ombra comincia ad apprezzare il potere, a bramarlo – e come un perfetto stratega arriva a dominare l’amministrazione durante il governo di Bush, sotto ogni aspetto.
Avremmo dovuto aspettarci un film profondamente drammatico, eppure viene etichettato come commedia, perché il gusto comico di McKay non si sarebbe mai lasciato scappare l’occasione di descrivere una figura così controversa, con la qualità che contraddistingue ogni commediante che si rispetti: ironia, in un perfetto “sentimento del contrario” – come ci insegna il nostro connazionale Luigi Pirandello. La storia è raccontata da Kurt (Jesse Plemons), veterano fittizio delle guerre in Afghanistan e Iraq, con la sua narrazione la quarta parete viene sfondata e la natura mefistofelica di Cheney svelata, il riso scaturito dalla successione delle immagini risulta grottesco e amaro.
McKay unisce lo stile classico dei film anni Settanta a soluzioni moderne dell’audiovisivo, l’uso sapiente di aspetti tecnici contribuisce a creare un cinema di informazione: il medium che critica, si burla degli altri media, fallaci e poco attendibili e noi tutti che ci affidiamo alle false informazioni che ci vengono propinate non siamo niente di più dei pesci pescati da Cheney, nei momenti in cui va a pesca.
Dick Cheney è un perfetto personaggio shakespeariano e i rimandi all’illustre autore inglese sono sparsi per tutto il film: i versi recitati da Lynn e Cheney in camera dopo l’incontro con Bush, che mostrano la loro intenzione di prendere tutto il potere, l’intervista finale in cui Cheney guarda in macchina, infrangendo ancora una volta la quarta parete, e come un perfetto Riccardo III dice al suo pubblico “I can feel your incriminations and your judgment and I am fine with that.” Frase lapidaria che ci mostra come quest’uomo in realtà non abbia mai lavorato per l’America, ma per se stesso. È stato avvelenato dal potere, così avido di potere da non interessarsi più alla sua famiglia, al suo mentore: nel momento in cui arriva a perdere il suo cuore, riesce a prendersene un altro.
Un’autobiografia non autorizzata. Dick Cheney è stato molto bravo a nascondere la sua vita (“We did our fucking best” si legge all’inizio), ma il film riesce a mostrare cosa sia il potere e la politica negli Stati Uniti: un gioco a chi arriva più in alto, a chi riesce ad ottenere la fetta di torta più grossa, un vizio. Dick Cheney nel momento in cui inizia a lavorare per Donald Rumsfeld (Steve Carell) chiede “Noi in che cosa crediamo?” e l’uomo per tutta risposta comincia a ridere, per poi sbattergli la porta in faccia. Una brevissima battuta che racchiude il significato dell’intero film: l’America non crede in niente, se non a se stessa.
a cura di Aurora Marconi