«Adesso siamo qui». Lo ripetono, se lo ripetono, ci aprono il disco. E con loro, i Subsonica, qui ci sono anche i fans storici che li hanno ritrovati. Sì, perché con 8, la band torinese di Samuel, Boosta, Max, Vicio e Ninja è tornata. Nonostante i 4 anni dall’ultimo album, nonostante le strade artistiche intraprese singolarmente, nonostante anche il cappellino di paglia che oramai nasconde da troppo tempo Samuel. Portando del loro nel progetto che resta ingombrante nell’album quanto basta: ci sono le ansie di tornare, le paure di non ritrovarsi ma anche il coraggio di raccontarsi e aprirsi al mondo musicale di oggi, superando il rischio di essere desueti. Persino porgendo una grande mano alla scena indie-itpop-
Certo, bisogna capire cosa ci si aspettava da questo album. C’era chi sperava in un continuo musicale de L’eclissi – e nelle basi elettroniche, inglobate in un mixaggio affidato a Marta Salogni e nei glitch c’è -, oppure voleva trovare del Samuel nell’album – e c’è anche questo nei testi e nell’atmosfera Battiato – infine chi magari sperava in una crescita in un mondo che rischia di appiattirsi su amore e indie.
Di tutto un po’ c’è. Ma in blocchi. Il disco, infatti, è un flow continuo e non è riuscito a sfuggire alla difficoltà di capirlo se non ascoltandolo tutto di un fiato. E in ordine. L’inizio alza l’asticella ed è chiaro che sia pensato come anello di congiunzione con i venti anni di storia. Il tempo e le personalità nel brano si fondono, a volte si confondono, altre si distaccano ma si sentono le tappe del viaggio lungo 22 anni. Dai tratti di una rievocazione giovanile, Jolly roger racconta il cambiamento su basi musicali che non hanno da invidiare neanche ai Prodigy.
Due parole secche, le prime «La normalità» aprono alla scoperta di 11 tracce. «I nostri anni hanno sfidato il tempo e anche scommesso di cambiare un mondo tornati indietro per pagare il conto. Ma adesso siamo qui». Dopo le difficoltà e le gioie, e perché no, anche i dubbi che in un percorso così lungo vanno messi in conto. E per un attimo se siano gli anni ’90 o il 2018 non è chiaro.
L’asticella resta alta, questa volta per la furbizia. L’incubo cambia il sound ma anche la scena, con la collaborazione di Willie Peyote. Entra prepotentemente nell’album la modernità: generazioni diverse a confronto, generi musicali distanti che si allineano e così quando il rapper sabaudo dice «Terrestre», il sorriso di trovarsi di fronte a un varco temporale che porta al quarto album della band, proprio a metà carriera è inevitabile.
«È come stare appeso ad un laccio/sospeso nel tuo spazio/un altro errore è che perderai laggiù/senza far rumore/e fuori il mondo aspetta/una tua decisione in fretta». Un incubo che racconta anche il vortice di paura di non essere immortali, che trova l’apoteosi in Punto critico, in un mondo distopico di sbarchi frontiere coming out, droga influencer sex online guardandolo «Fermi sul punto critico, ricreazione rivoluzione».
È Fenice la vera sorpresa dell’album, con i cori e le sonorità entusiaste non si può stare fermi. Una scossa nel corpo e sembra di rivedere la ragazza che balla da sola davanti alla tv, una televisione rotta sotto qualche ponte in giro, una ragazza che è però oggi si svela cresciuta, non più ossessionata ma serena. «Con il mio destino. Lo so salderò i miei debiti. Il tempo va e non lo puoi fermare ma ancora segui l’illusione di un potere (…) ancora tu non dovevano vederci rivederci più».
Come e con Fenice hanno dimostrato di poter rinascere, dalle proprie ceneri, dal proprio passato e dalle proprie esperienze. Dal berretto con visiera di Samuel. Oltre ai testi, pregiate parentesi musicali sono presenti in ogni traccia, raccontando un disco musicalmente superiore a tanti tentativi della loro carriera. Un groove pulito, mixato sapientemente e unico, a volte appesantito da testi impegnativi come in Respirare – a loro detta un brano carico di sentimento – o Le Onde – cullato dal pianoforte e da una melodia di Boosta dedicata a Carlo Rossi figura di riferimento per la band – che nascondono delle basi sensazionali “capaci di rendere sostenibile il peso dell’argomento”. Brani che sì fanno da contraltare a due pezzi che fanno riemergere l’anima dei Subsonica, inventori due decenni fa di un genere che mischiava rabbia ed elettronica, italiano verbale e universalità musicale come Bottiglie rotte, che nel testo e nella denuncia al mondo attuale trova la sua grande forza e Cieli in fiamme, un brano di tensioni, che riconduce in una disco-labirinto mentale oltrepassata da suggestioni afro beat e synth visionari. Ma sono pur sempre brani che restano macigni emotivi che ci ricordano che non si può scappare alla crescita.
Questa maturità era inevitabile – che ben si carpisce nell’Incredibile performance di un uomo morto – visto il traguardo di carriera che mai come in questo momento in Italia non è scontato. Quello di continuare a esistere ma soprattutto continuare a dar voce a qualcuno. E loro, in un viaggio tra alti e bassi, tra testi e musica, tra passato e futuro, sono riusciti a mostrare che ancora possono provarci. Perché quella paura di cui cantano, tema che nel disco è ricorrente, quella «di essere normale/di non avere niente da gridare/ok nessuno si ricorderà/neanche un po’ di te” possono superarla. Non servirà la psicoterapia, c’è il palco. E quello “che porto in me poi so che verrai tra la polvere per sporcarti con me», che cantano nel pezzo che chiude il disco La Bontà – brano proposto da Samuel – guarisce tutto. A patto che gli ricompaia il berretto in testa e la tastiera volante di Boosta. Ecco, quella sarebbe davvero normalità. Perché non è detto che non sia bello rivedere un film già visto, soprattutto se sa smuovere dei punti giusti.