Quando si parla di lui, le aspettative sono sempre di un certo tipo. Tom Morello, tra gli ultimi guitar hero ad emergere dal periodo d’oro del rock, e forse l’unico a sopravvivere più o meno indenne a tutto ciò che ne è seguito nel nuovo millennio. Non solo riff tellurici al vetriolo à la Jimmy Page ed assoli che sperimentano più o meno tutto il corredo di effetti che possano uscire da una chitarra (al punto da rendere necessario la celebre puntualizzazione “No samples, keyboards or synthesizers used in the making of this recording“, che ricorre nei crediti di tutti gli album dei Rage Against the Machine e degli Audioslave). Ma anche un coinvolgimento politico e più in generale un interesse e un’attenzione alla causa sociale che fin dagli inizi con i Rage Against the Machine si è legato a doppio filo alla sua produzione artistica e lo ha proiettato in una dimensione superiore, da artista impegnato. Una personalità multiforme, insomma, e dal peso specifico notevole.
The Atlas Underground è un progetto solista di Morello ed arriva dopo l’esperienza riuscitissima dei Prophets Of Rage (che non sembra comunque finita qui, speriamo almeno). Una sorta di seconda giovinezza, che lo ha riportato ai livelli dei Rage Against the Machine, con quell’inconfondibile sound a metà tra hard rock e hip hop e una presenza in prima linea da attivista politico. Il progetto Audioslave prima e quello in proprio – The Nightwatchman – poi, ne avevano infatti messo in crisi l’originalità compositiva. Che aspettarsi allora da questo nuovo lavoro? Dalla tracklist, resa nota già quest’estate, si notano subito le tantissime collaborazioni, almeno una per brano, con artisti dalla provenienza più disparata: rapper del calibro di RZA, GZA e Vic Mensa; Carl Restivo, collaboratore nel progetto The Nightwatchman; gruppi indie-rock come Portugal The Man e Marcus Mumford dei Mumford & Sons. Ma la vera sorpresa è la presenza di una moltitudine di dj e producer, Steve Aoki in primis, che lasciano presagire un approdo a nuovi e inesplorati lidi: EDM, dubstep e dance, si intuisce.
In apertura c’è Battle Sirens, già pubblicata nel 2016 come singolo in collaborazione con la coppia di dj australiani Knife Party. Dopo un intro di chitarra graffiante e un promettente riff à la Red Hot Chili Peppers, irrompe con forza l’elettronica dubstep in stile Skrillex, che non lascierà più tregua fino al termine del pezzo. Nonostante alcuni spunti discreti, appare ancora acerbo l’ambizioso tentativo di fondere hard rock ed elettronica. Quando tornano i rapper a far da spalla alla chitarra Morello infatti, si sente che il nostro gioca in casa. È il caso di Rabbit’s Revenge, dove i tipici riff zeppeliniani accompagnano dall’inizio alla fine un bel rap old school: un richiamo al passato a braccetto con la novità dei sintetizzatori e un ritornello in stile Kasabian sicuramente degno di nota. Lo stesso dicasi per Lead Poisoning dove oltre al notevole contributo hip hop di GZA e RZA troviamo delle bellissime digressioni dubstep, che chiudono l’album con la giusta carica. Presto però arrivano i veri dolori: le patinate collaborazioni con Portugal The Man e Marcus Mumford vedono il contributo di Morello ridursi all’osso, giusto un po’ di caffeina per scuotere il languore indie dei suoi collaboratori e un assolo in riverbero che ci avrebbe potuto risparmiare. E mentre Every Step That I Take fa comunque la sua figura (anche se sicuramente per merito del quintetto di Portland), di Find Another Way non si può dire neanche questo.
Il disco prosegue così tra alti e bassi. La collaborazione con Vic Mensa ci restituisce finalmente il Morello naif che si diverte a giocare con gli effetti e le pedaliere: un bel riff dalle cadenze funk e imbottito di wah-wah sostiene a dovere il cantato rap. How Long è un pugno nello stomaco, forse il pezzo più riuscito dell’album, che catapulta completamente nell’universo della dance e dell’EDM; peccato che anche stavolta i meriti siano in gran parte dei blasonati ospiti (Aoki). One Nation è invece uno strumentale senza infamia e senza lode, in cui tornano wah-wah e altre amenità, senza che riesca comunque a decollare come ai vecchi tempi, mentre Vigilante Nocturno, il pezzo potenzialmente più morelliano dell’intero lavoro, si sente la mancanza di De La Rocha come non mai.
Che dire quindi? Sicuramente la grinta e i riff assassini non mancano, e questo è senza dubbio un punto a favore. Lo stile rabbioso che aveva sfondato ai tempi dei Rage Against The Machine e tornato prepotentemente con i Prophets Of Rage è il piatto forte della casa. Morello ci ha costruito intorno fama e successo, ne ha fatto il suo marchio di fabbrica: giusto quindi continuare a battere lì, è ciò che gli riesce meglio. Scansati gli incubi di un’altra deriva folk in stile The Nigthwatchman bisogna però chiarire che questo nuovo tentativo di ibrido, stavolta con elettronica e dubstep, non è del tutto riuscito. Non è un caso che i pezzi migliori siano quelli in cui Morello ruggisce con la chitarra negli amplificatori e pigia forte sulla pedaliera (pochissimi per la verità). Oppure quelli in cui a farla da padrone sono gli ospiti (Portugal The Man e Steve Aoki) e il nostro Tom si siede in panchina.
Il lavoro nel complesso non sarebbe niente male, zeppo com’è di grinta e garra: Morello ha lavorato bene da produttore, coinvolgendo tutti gli ospiti col suo stile combattivo. Basta pensare ai Portugal The Man o Marcus Mumford, che mettono da parte l’aplomb indie ed escono rinvigoriti e rivitalizzati dalla collaborazione. D’altra parte però il lavoro esce a nome Tom Morello, perciò bisogna valutarlo sotto tutti gli aspetti, non basta la produzione, per quanto ottima e coinvolgente.
Il retrogusto che rimane, anche dopo il terzo ascolto, è che le sorti di The Atlas Underground siano più nelle mani degli ospiti che in quelle del padrone di casa. Mentre Morello sceglie i colori della tavolozza, molto spesso sono altri a dipingere e ad assumersi la responsabilità della pennellata geniale. Troppi ‘’se’’ e troppi ‘’ma’’ per un peso massimo come lui.