Lo scorso autunno nelle aule del Parlamento veniva combattuta una silenziosa battaglia per il diritto allo sport dietro la quale si celava una battaglia ancora più importante: quella per il riconoscimento alla propria identità, per il diritto di sentirsi parte del paese in cui si è nati e cresciuti. Quell’identità così forte da sentirla sulla propria pelle, la stessa che oggi sempre più si trova al centro di un’agenda politica costruita sul disprezzo dei migranti.
A lanciare il guanto di sfida ci aveva pensato un allenatore di basket, Massimo Antonelli, un passato di giocatore tra Bologna e Napoli, un bronzo ai Giochi del Mediterraneo del 1975, da anni promotore del Music Basketball Method noto anche in Europa settentrionale, in Canada e in Sudamerica. Antonelli ha incrociato la sua strada con quella della città di Castel Volturno, popolosa fascia di terra vicina al mare tra il Villaggio Coppola – sogno di due fratelli che avrebbero voluto farne una Rimini campana – e il parco Saraceno immortalato da Dogman di Garrone, fino alla Domitiana che corre lungo un territorio che, lasciandosi Napoli alle spalle, si addentra nella sfilacciata provincia casertana.
Castel Volturno non è un luogo come un altro, qui la percentuale di stranieri supera il 40% trasformando la cittadina in una piccola enclave africana in territorio campano in precario equilibrio con l’ambiente che la circonda; è qui che dieci anni fa – in un tragico disegno del destino – ha smesso di battere il cuore della grande voce nera di Miriam Makeba. Qui è anche dove sono cresciuti ragazzini che parlano italiano e napoletano, che vivono e pensano da italiani, che mangiano e sognano da italiani perché sono molto semplicemente italiani e che non hanno però accesso agli stessi diritti dei loro coetanei nati da genitori italiani a causa della miopia, della meschinità, di calcoli politici ed elettorali che hanno bloccato l’iter parlamentare della legge sullo ius soli.
Coach Antonelli è piombato in questa realtà – un contesto sociale ed economico spesso disagiato e difficile, con l’impossibilità da parte delle famiglie (nigeriane e ghanesi) di contribuire all’attività sportiva dei propri figli – portando con sé il sogno della Tam Tam Basket per costruire poco a poco e a titolo gratuito un progetto che fosse insieme sociale e sportivo (con l’aiuto della fondazione Decathlon per il materiale sportivo e di un crowdfunding per la ristrutturazione del palazzetto dello sport come anche per l’acquisto di un pullmino per portare i ragazzi agli allenamenti e in trasferta).
A rischiare di spezzare questo sogno c’erano però le regole della FIP (Federazione Italiana Pallacanestro) che per le squadre di minori over tredici prevedeva l’utilizzo di soli due extracomunitari in campo. Davanti al silenzio della FIP e del Coni è toccato all’onorevole del Partito Democratico Michele Anzaldi e all’allora Ministro dello Sport Luca Lotti introdurre nella scorsa legge di bilancio un emendamento pro Tam Tam che – nei fatti – ha dato il via a una sorta di ius soli sportivo a oggi allargato a oltre 500.000 ragazzini in tutta Italia in attesa del loro diciottesimo compleanno e di una legge sullo ius soli che nell’attuale clima politico è naturalmente ben lontana dall’agenda di governo.
La storia della Tam Tam Basket mi ha raggiunto grazie a Carmen Sigillo, fotografa napoletana dagli occhi vivi, frenetici, irrequieti che si fermano solo quando diventano un tutt’uno con la sua macchina fotografica. L’ho conosciuta un paio d’anni fa sotto il palco di un concerto dove ognuno cercava la propria narrazione, io con le parole, lei con le immagini. Ogni cosa, ogni esperienza in fondo conduce sempre lì: a una storia da poter raccontare. Lei è arrivata a quella della Tam Tam leggendone sui giornali e seguendola dalle aule di tribunale che ha frequentato come avvocato fino a poco tempo fa prima di iniziare a lavorare per il Ministero della Giustizia. “La decisione di recarmi a Castel Volturno è nata per conoscere da vicino la battaglia legislativa che lo scorso anno stavano portando avanti i giovani della Tam Tam Basket. Credevo, all’epoca, che sarei rimasta sulla Domitiana uno o due giorni, che avrei offerto il mio contributo con qualche scatto e poi mi sarei dedicata ad altro. Altrove. Ben presto, però, dai campi di allenamento, col consenso dei genitori, ho puntato l’obiettivo sulla quotidianità degli atleti del coach Antonelli e, da allora, non sono più riuscita a lasciare il territorio, i ragazzi”.
È così che fin dallo scorso ottobre Carmen ha deciso di seguire l’avventura della Tam Tam Basket in un percorso che – strada facendo – ha intrecciato il piano professionale con quello personale. “Li ho incontrati in un momento di grande cambiamento della mia vita, un momento anche di aridità affettiva e mi sono ritrovata improvvisamente dentro questa carovana d’amore”. Per capire cos’ha rappresentato quest’avventura basta guardare le foto – davvero bellissime – che Carmen ha scattato nel corso di quest’anno e che saranno esposte nella sua mostra “Born in Italy” a Castel Volturno dal 21 settembre presso l’IMAT di via del Mare (dalle 18, con conferenza di presentazione prevista per le 17) e resteranno lì fino al 13 ottobre.
La sua passione per la fotografia sociale – che da sempre affianca a quella per la musica dal vivo – in Born in Italy trova una nuova chiave di lettura grazie alla grande connotazione positiva che ne viene fuori, alla vitalità, al modo di stare al mondo di ragazzi che si sono concessi allo sport come agli scatti di Carmen con tutta l’allegria, l’entusiasmo, la freschezza della loro età. “Sono ancora bambini che vivono la fanciullezza del gioco. Non hanno risentito – grazie soprattutto alla cultura delle loro famiglie – del territorio a rischio nel quale sono cresciuti, non hanno cioè avuto quella necessità di essere grandi prima del tempo che talvolta si ritrova nei loro coetanei”. Carmen è un fiume in piena che non trattiene le emozioni: si lascia scappare un “i miei bambini, i miei ragazzi” che dà il senso di una tenerezza trattenuta a stento e di un percorso condiviso e sentito. Del resto quello appena trascorso è stato per lei un anno ricco di esperienze e di ricordi: le domeniche al mare, al campetto dove i ragazzi continuano ad allenarsi al di fuori dei lunghi e impegnativi tre allenamenti settimanali, le tante feste di compleanno cui ha preso parte, il capodanno del 2018 con il grande rito pentecostale e la piccola Vittoria a chiederle di mangiare il cibo che tutti avevano portato “per sentirsi una di loro”. Una passione per lo sport – che prima dell’arrivo del pullmino li vedeva percorrere anche venti minuti a piedi lungo una strada provinciale per partecipare agli allenamenti – che avvolge ogni aspetto della loro vita quotidiana cui Carmen ha avuto il privilegio di accedere: “Soprattutto per questo è nato il progetto Born in Italy, per restituire a questi giovani e alla loro terra, la Domitiana, parte di ciò che ho ricevuto”.
Tam Tam Basket e Born in Italy sono solo l’inizio di un percorso che naturalmente nasconde ancora tantissime insidie. La discriminazione è ancora tanta – me lo racconta Carmen con un misto di rancore e voglia di combattere che la attraversa nonostante sia passato del tempo da una giornata natalizia in cui, accompagnando i ragazzi più piccoli a un centro commerciale, si erano visti rifiutare con una scusa l’accesso alla playstation dove provare i giochi, per poi scoprirla – appena una manciata di minuti più tardi – in mano ad adulti bianchi. E anche se alla fine i ragazzini della Tam Tam si sono presi la loro mezz’ora di divertimento – quella che gli sarebbe spettata fin dal principio – è difficile non provare lo stesso dispiacere, la delusione, la frustrazione, l’amarezza che leggo ancora negli occhi di Carmen e non immaginare i danni che tutto ciò provoca negli animi acerbi di ragazzini dal sorriso allegro che per la loro età non possono certo avere né la forza né la cultura per farsene in qualche modo carico. Episodi come questo rappresentano quel tipo di violenza sottile – a volte invisibile ai grandi media – che s’infiltra e lascia inevitabili segni. È soprattutto per questo che mi racconta Carmen “loro tendono comunque a stare in branco – pur interfacciandosi certamente, i più grandi, con le ragazzine e qualche amico italiano – come risposta alla sensazione di un attacco esterno che tende a unirli maggiormente ma a farli anche chiudere”.
Born in Italy è ora diventato un manifesto online sostenuto già da tanti personaggi noti provenienti dagli ambienti più trasversali: il capitano del Napoli Marek Hamsik (che da sempre ha scelto Castel Volturno come luogo dove vivere e far crescere i propri figli), i registi Matteo Garrone ed Edoardo De Angelis, la giornalista de Il Mattino Anna Trieste, l’inviato di Striscia la Notizia Luca Abete, l’attore Carlo Croccolo, il cestista Linton Johnson III, il cantautore Colapesce, l’avvocato per i diritti civili Hillary Sedu mentre Enzo Avitabile ha concesso gratuitamente la sua Tutt’egual Song’ ‘e Criature per il video teaser di presentazione della mostra che potete vedere qui sotto.
Born in Italy vuole però essere aperto a tutti, basterà inviare alla pagina Facebook una propria foto con l’hashtag #iosonoborninitaly e al raggiungimento delle mille fotografie le immagini saranno raccolte e inviate agli organi costituzionali, affinché il legislatore si faccia carico di un tema che non ha né appartenenza né colore politico. Mille volti come un’unica voce che prova ad alzarsi nel silenzio di una nazione come la nostra e di un’Europa sempre più infestate dai fantasmi del nazionalismo e dell’intolleranza di tutti coloro che cercano di nascondersi dietro motivazioni economiche e logistiche che non trovano alcun fondamento reale.
Miracolo, Honesty, Destiny, Price, King: dietro questa geografia onomastica che ha il profumo di luoghi lontani, di delta e di salsedine, che sa di multiculturalismo e di quella ricchezza unica che nasce dall’incontro di culture e tradizioni diverse, si nascondono le insidie di un territorio non sempre pronto ad accogliere senza l’arma tagliente del sospetto, con la conseguente possibilità di perdersi, di prendere strade sbagliate forse più dei loro coetanei. Ecco allora che la scelta degli onorevoli Anzaldi e Lotti ha mostrato non solo coraggio ma anche lungimiranza. Nei contesti che offrono davvero pochissime possibilità, lo sport nel suo senso più nobile e più alto di regole e di aggregazione, offre la speranza di un futuro diverso e la possibilità di un campo – letterale come metaforico – dove non ci si debba sentire diversi per il colore della propria pelle.
Tutto questo non deve riguardarli: loro devono continuare a correre su un campetto, a tirare un pallone in un canestro, a sorridere gioiosi come fanno in ogni foto, a saper accogliere l’altro come noi sembra non siamo più in grado di fare. È dentro questa gioia, dentro questa innocenza – come innocente è ogni purissima felicità – che si nasconde il tesoro di un futuro radioso, uno specchio nel quale guardarci per riconoscerci migliori. È quello che dobbiamo cercare di non dimenticare: è fondamentale tenere alta la guardia, lottare e difendere i diritti di tutti ma perderemo se lasceremo che i nostri occhi si riempiano solo dal misero squallore quotidiano. È a questa bellezza invece che dobbiamo guardare, sono queste le emozioni che dobbiamo saper raccontare e conservare: perché sono la sola cosa che potrà salvarci.