La mutazione è sempre stata una costante della natura di Eleva. Mutare significa cambiare forma e il modo di vivere consueto. In alcuni casi si è trattato di una trasformazione strutturale, giocando con gli spazi della città, quelli solitamente abituati alla sobrietà di una mostra d’arte o all’abbandono postmoderno dell’ex mangimificio. In altri casi ha riguardato l’evoluzione della proposta e la costante ricerca – musicale e comunicativa – su che tipo di esperienza dovrebbe provare uno spettatore di Eleva. Negli ultimi sei anni Eleva si è spostata dai luoghi della cultura a situazioni più metropolitane, arrivando in un altro posto simbolico del passato come le fiere appena fuori città, più volte date per vendute e fallite, ma che eroicamente resistono al loro posto. Due mondi, quello fuori dai cancelli, fra le luci della Festa dell’Unità, delle sue giostre e delle famiglie che passeggiano mangiando come negli anni ’90, e un’altro dentro all’arena, a pochi passi, il mondo elettronico di chi sperimenta di più e si trova lì dal pomeriggio e di chi arriva dopo e si rifugia nei capannoni per l’aftershow. Una sorta di villaggio democratico immerso nel buio solo di poco ravvivato dalle luci soffuse che circondano il palco. Non c’è più il prato, è sull’asfalto che le atmosfere acide di Nathan Fake colpiscon chi è già arrivato e sta davanti, producendo un set cupo che dalla techno minimale si sposta sul drum ‘n bass, alla drone e all’idm. Il segno di quello che dicevamo. In sei anni Eleva ha intrapreso un percorso chiaro, riducendo l’impatto del mondo clubbing per i generi elettronici nel loro senso più ampio. Contaminazioni e differenziazione, come quella dell’iniziale scommessa che fu l’indie italiano e che lentamente ha cominciato a guadagnare minuti sui suoi palchi, aggiungendo quella visione di evento a tutto tondo, con market diy e truck food della zona annessi
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I bassi, quelli sì, sono rimasti gli stessi, come ci avrebbe spiegato Space Dimension Controller e avrebbe ribadito Radio Slave già dalla prima serata. Eleva raccoglie una serie di buoni propositi e sfide delicate, come quella di cominciare a suonare presto e convincere a uscire di casa prima, ribaltare le abitudini che invecchiano sempre di più in una città come Reggio Emilia. Eleva ha ancora grandi margini di crescita, proprio perché in questi anni non ha mai smesso di concepire la musica come partecipazione a un evento collettivo, che fa nascere nuovi curiosi in quella tendenza a riprodursi dell’identico nei piccoli centri, fatti di piccole storie e piccole dinamiche da cui sembra impossibile uscire. Lo senti ma poi preferisci lasciare tutto alle spalle. Sono le prime file che ci convincono di più. Per i loro movimenti, per quello che abbiamo bevuto, perché è così che dovrebbe andare normalmente. Questa città ha perso così tanto tempo riflettendo su quale fosse il vestito migliore per presentarsi e poi accorgersi che tutti lo indossano. Eleva, in questo senso, si è dimostrata capace di costruire un’alternativa secondo un modello di clubbing intelligente, che non abbandona la spettacolarità ma nemmeno si dedica solo a curare quell’aspetto. In un periodo come questo, dove stare in mezzo alle persone è diventato meno naturale, Eleva ha investito le proprie risorse, convincendoci a ricostruire un’idea di partecipazione collettiva, anche in posti dove non sembrava possibile concepirla. Passi in più, nella direzione che vorremmo ancora più potente ed estrema, per spezzare una volta per tutte la separazione fra quei due tipi di mondo che ci siamo trovati davanti.