«La rivoluzione del ’68 ha avuto un risultato estetico, non politico» – così Olivier Assayas nel presentare il suo Aprés Mai, film in concorso alla 69° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2012. Dopo Maggio – quel maggio – non era solo la storia di alcuni ragazzi e dei loro percorsi di vita a tre anni dagli eventi del sessantotto, quanto un ricordare al mondo cinematografico e non che il sessantotto – forse addirittura prima di fenomeno in sé – è stato ed è tuttora che se ne celebrano i cinquanta anni, soprattutto questo: un grande e infinito fenomeno estetico capace di far sentire la propria onda lunga nello spirito, nella fantasia e nell’immaginazione di milioni di ragazzi e non solo, in tutto il mondo. Proprio perché luogo della memoria, prima di tutto visiva, il cinema ha incrociato la sua strada innumerevoli volte coi ragazzi del sessantotto – perché ragazzi erano – finalmente protagonisti in tutte le loro contraddizioni della storia. Ancora perché luogo della memoria il racconto del ’68 su celluloide non può che partire da quelle opere che poco meno di vent’anni fa provarono a riflettere più di altre su quella storia e su quella generazione – ex post – lì dove, ma lo vedremo più avanti – il racconto in contemporanea di quei fatti si fece più complicato e frammentato.
Anni duemila – I sognatori, gli amanti regolari. Storia della meglio gioventù del dopoguerra.
Un poco ubriachi cantano, alla mattina presto / coi fazzoletti rossi stretti intorno alla gola / poi comandano rauchi quattro litri di vino / e caffè per le ragazze che ormai tacciono piangendo.
Ogni storia ha un inizio. Ogni narratore sa che quell’inizio ha radici più lontane nel tempo, prima che tutto sia manifesto. 4 novembre 1966, alluvione di Firenze: è l’inizio del sessantotto per quel grande affresco, forse l’ultimo nazionalpopolare, capace di mescolare narrazione immediata e un discorso altro e più complesso, che è stato La Meglio Gioventù di Marco Tullio Giordana, Premio Un Certain Regard nel 2003. È nella catena umana di giovani capelloni che metteranno in salvo i preziosi volumi della Biblioteca Nazionale Centrale che si incrociano i destini dei due fratelli Carati: Matteo, nel suo ritiro dal mondo nelle pieghe confortanti dell’esercito, e Nicola con la sua passione per la psichiatria dopo l’incontro con la delicata follia di Giorgia. Nel grande racconto dell’Italia dal dopoguerra che Giordana spinge fino agli anni novanta, il sessantotto, la nascita del movimento e le sue implicazioni hanno un peso fondamentale; è nel cortile del Palazzo Montauti-Niccolini che si re-incontrano quei ragazzi pieni di allegria e d’impegno, di belle speranze – attese per alcuni e disattese per altri. È lì tra tende e pranzi improvvisati che si forma quella meglio gioventù di pasoliniana memoria, lì che l’amore fa breccia grazie a un piano un po’ scordato (rimando al piano iconico nel cortile della Sorbona di Parigi) capace di fare da colonna sonora a una distribuzione di pagnotte agli angeli del fango. Nel blocco successivo siamo già a Torino nel Febbraio del 1968: l’università è appena stata occupata, un passo in più che vede intrecciarsi le due anime del movimento, quella studentesca e quella proletaria degli operai di Mirafiori (La classe operaia va in paradiso di Elio Petri del 1971 è il punto insuperabile della narrazione cinematografica della stagione operaia); con una rapida iperbole Giordana ci scaraventa dentro le manifestazioni del ’74, negli scontri con la celere a ricordarci che mai come in Italia l’onda del movimento è stata lunga e disperata a volte; nelle pieghe più cupe della nascita del brigatismo, nella notte oscura della Repubblica giace l’altra faccia di quelle istanze che porteranno al rinnovamento nelle università, nei manicomi con la legge Basaglia, nella società con le battaglie per i diritti civili e per il femminismo, in un modo nuovo e altrettanto rivoluzionario di guardare alla criminalità organizzata.
La Meglio Gioventù restituisce in pieno lo spirito autentico della gioventù di quegli anni grazie a un cast di attori in stato di grazia e a un’alchimia irripetibile: Luigi Lo Cascio, Alessio Boni, Jasmine Trinca, Sonia Bergamasco, Maya Sansa, Fabrizio Gifuni, Claudio Gioè, tutti illuminati da un’icona del cinema di quel periodo come Adriana Asti, moglie e musa di Bernardo Bertolucci.
Lottavano così come si gioca / i cuccioli del maggio, era normale / loro avevano il tempo / anche per la galera / ad aspettarli fuori rimaneva / la stessa rabbia la stessa primavera
E sarà proprio Bernardo Bertolucci a regalare al cinema, nello stesso anno, The Dreamers a oggi uno dei ritratti più affascinanti del maggio francese. Lo fa da una prospettiva diversa che prende in prestito dal racconto The Holy Innocents di Gilbert Adair, storia di un triangolo amoroso, sessuale, di fascinazione avvolgente. 1968, Michael Pitt è un ventenne americano che studia a Parigi. Timido e taciturno anche per una scarsa padronanza della lingua, il giovane americano passa i suoi pomeriggi nelle sale della Cinématèque française ed è proprio lì che, durante l’occupazione, parla per la prima volta con i gemelli Théo e Isabelle (Louis Garrel e l’esordiente Eva Green). Matthew entrerà nella casa e nella vita dei due gemelli scoprendo un rapporto al limite dell’incestuoso che ben presto si trasformerà in un ménage a trois. Nella casa borghese – ça va sans dire – i tre ragazzi discutono di amore, di politica ma soprattutto di cinema.
The Dreamers è un omaggio continuo al cinema, al potere dell’immagine, del racconto, alla suggestione del cinema di quegli anni – «Le corrispondenze tra arte, cinema e poesia hanno riguardato profondamente la nostra generazione. Durante la conferenza stampa sul set di La commare secca, dissi ai giornalisti romani: “Parleremo in francese”. “Perché? – mi risposero. – Noi siamo tutti italiani e anche lei”. “Parce que le français est la langue du cinéma”, pontificai io. Ero del tutto plagiato da Godard e dalla Nouvelle Vague […] C’era quasi la dipendenza da quel tipo di cinematografia, dalla nouvelle vague ma anche dal cinema di Renoir, Vigo, il cinema francese degli anni Trenta».
Il film è ricchissimo di citazioni: il Godard di À bout de soufflé e Pierrot le Fou, il poster de La Chinoise che compare in moltissime scene – vera ragione del maoismo di Théo – Mouchette e Perfidia di Bresson, I quattrocento colpi di Truffaut, come anche, tra i tanti, Luci della città di Chaplin, Venere bionda di von Sternberg e Il cameraman di Buster Keaton. Ma una scena racchiude in sé sopra ogni altra la devozione cinematografica di Bertolucci: è la corsa al Louvre dei tre ragazzi che proveranno – riuscendoci – a battere il record di Odile, Franz e Arthur in Bande à part, scena che si concluderà sotto la pioggia mentre risuonano le note di Queen Jane Approximately di Bob Dylan e con i gemelli a gridare «We accept you, one of us!» come in Freaks di Tod Browning.
The Dreamers è una storia d’innocenza, perché innocente è lo sguardo dei sognatori, innocente la loro sotterranea insofferenza, innocente tutto ciò che provano nella loro fuga dal mondo. Il vortice di auto isolamento in cui precipitano durante l’assenza dei genitori dei gemelli – come cuccioli perduti – verrà spezzato letteralmente dal passaggio della storia. Sarà un sasso lanciato contro la loro finestra nella loro ultima notte a risvegliarli dal torpore auto inflitto. La manifestazione sotto la loro casa sarà il flusso della storia pronto ad assorbirli e a trasformarli da individui in cittadini. Sarà anche la forza capace di dividere improvvisamente le loro strade – con Théo e Isabelle a imbracciare la violenza della protesta con una molotov e Matthew che andrà via non condividendo la loro scelta e tornare magari chissà – fuori dallo schermo – negli Stati Uniti a combattere un altro sessantotto contro la guerra del Vietnam.
The Dreamers è ancora oggi a distanza di anni un film che trasuda amore per il cinema, per le istanze del sessantotto e per quelle della gioventù – «Il film è lungimirante come si può esserlo da molto giovani; poi crescendo si diventa più razionali ma si perde la lungimiranza, molto della vita diventa una questione di miopia o presbiopia. È quello che Garrel ed io abbiamo cercato di esplorare con i nostri film: il potere profetico che la gioventù possiede, e non lo sa per fortuna».
Sta succedendo qualcosa di importante, se tu ci credessi staresti per strada, invece sei qui a parlare di maoisti
Già, Garrel. Solo due anni più tardi il regista francese Philippe Garrel, padre di Louis, erede designato di Godard e Truffaut – autore poi invece di un percorso assolutamente personale e autentico di totale fedeltà allo spirito della Nouvelle Vague – porterà alla 62a Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia Les amants réguliers – film da camera, capace di portarci dentro le stanze oppiate del maggio parigino. «Nel 1968 avevo girato un cortometraggio di tre minuti, Actua I, un notiziario rivoluzionario sulle agitazioni del 22 marzo ma quel film l’ho perso. In Les amants réguliers ho rifatto le stesse inquadrature, come un pittore che rifà un quadro rubato. […] Mi sono accorto che era più facile ricordarsi un’inquadratura e rifarla tale e quale piuttosto che ricordarsi un avvenimento, sottoposto com’è alle metamorfosi operate da memoria e sogno. […] All’epoca avevo fatto vedere il film a Godard. Se vedesse Les amants réguliers, potrebbe riconoscere le inquadrature girate di nuovo». Dunque, come per i sognatori di Bertolucci, anche per Garrel raccontare il 68 significa prima di tutto vedere il sessantotto, ricordare non l’avvenimento ma l’occhio della camera che lo ha inquadrato.
Ed è un gioco di specchi cinefilo e bellissimo che attraversa i due film della maturità di entrambi i registi – «un incontro rimandato per troppo tempo» come lo definirà lo stesso Bertolucci. Gli amanti regolari del titolo sono François (Louis Garrel) e Lilie (Clotilde Hesme), l’ambiente il medesimo: quello dei figli di una borghesia francese insoddisfatti – artisti, poeti, sognatori – che si muovono esattamente dov’era finito il film di Bertolucci: dentro la rivolta, dietro le barricate con le auto, con molotov e sanpietrini contro le cariche della gendarmerie. Se The Dreamers era soprattutto il racconto di un’iniziazione – sessuale, poetica, politica – Les amants réguliers si fa invece quasi subito riflessione amara sull’anno immediatamente successivo, il 1969 e – come in un cerchio che si chiude – racconta ancora una storia di anime sognanti in appartamenti eleganti, dove quel qualcosa nell’aria si trasforma precipitosamente nel tanfo di stantio di un assedio rovesciato e di vite che collassano su se stesse e che cercano, disperatamente assenti, possibili vie di fughe – il sogno di una carriera artistica a New York, la fuga verso paradisi artificiali lungo le coste del Marocco, il suicidio.
The Dreamers e Les amant réguliers sono due film stretti da un legame fortissimo. Non solo per la stima reciproca dei due registi, e nemmeno per il protagonista Louis Garrel – figlio diventato attore agli occhi del padre grazie al film di Bertolucci – ma anche perché Les amants réguliers a causa di un budget ridotto è stato girato interamente usando le stesse comparse e gli stessi costumi di The Dreamers. Così la giacca verde di Théo è la stessa che porterà François nel bianco e nero saturo e inconfondibile della cinematografia di Garrel. È in una scena – così Nouvelle Vague – a metà film, sarà Clotilde Hesme a chiedere a un amico «Hai mai visto Prima della rivoluzione?» per poi guardare dritto verso lo spettatore e scandire con accento francese il nome di Bernardo Bertolucci.
Segni/ sogni – premonitori. I primi anni sessanta in Italia
Chi non ha vissuto negli anni prima della rivoluzione / non può capire che cosa sia la dolcezza del vivere
Il sessantotto italiano rappresenterà la grande eccezione tra le rivolte del novecento. Da noi più che in qualsiasi altro paese quell’anno si trasformerà in un’intera decade di lotte, tra luci e ombre, diventando per molti aspetti la miccia pronta a far esplodere un conflitto sociale e politico che l’entusiasmo per la fine della guerra e il benessere del boom economico avevano sopito come una bestia pronta a risvegliarsi. Come lunga fu l’onda del riflusso altrettanto fu in qualche modo la preparazione al desiderio di cambiamento e il cinema italiano fu tra i primi a raccontare quell’inquietudine borghese e non solo che portò all’esplosione del conflitto anche in chiave generazionale. Se The Dreamers rappresenta in qualche modo la chiusa romantica con cui il cinema celebra i ragazzi ribelli del sessantotto così anche i primi segni di quello che sarebbe avvenuto si ritrovano proprio in uno dei primi film di Bertolucci.
Prima della rivoluzione, uscito nel 1964 – l’anno dell’inizio delle rivolte a Berkeley – è la storia di un giovane borghese in crisi con se stesso e col mondo che lo circonda. Critico fortemente nei confronti del PCI, tormentato dal senso di colpa per non aver salvato il suo miglior amico, Fabrizio (Francesco Barilli) insegue un sogno di libertà nell’amore per la giovane zia (Adriana Asti) ma ogni possibile sogno imploderà dentro la vita borghese che sceglierà alla fine. Prima della rivoluzione si apre con alcuni versi di Pier Paolo Pasolini da La religione del mio tempo – «Eppure, Chiesa, ero venuto a te. / Pascal e i Canti del Popolo Greco / tenevo stretti in mano, ardente, come se // il mistero contadino, quieto / e sordo nell’estate del quarantatre» – citazione politica e rivoluzionaria a un tempo e insieme omaggio e lungimirante visione del Pasolini corsaro nei confronti dei manifestanti a Valle Giulia.
Sconvolgente ancora oggi a distanza di così tanti anni dalla sua uscita nel 1965, I pugni in tasca – folgorante esordio alla regia di Marco Bellocchio – pur non toccando in alcun modo i temi politici (che saranno invece al centro del successivo e criticamente caustico La Cina è vicina, 1967) anticipa le tensioni nascoste che sottendono la crisi della famiglia. Autobiografico in senso oseremmo dire psicanalitico, I pugni in tasca racconta di una famiglia in una grande casa sull’Appennino piacentino, dove una madre cieca vive con i tre figli maschi e una sola figlia femmina. Augusto è alla ricerca di un percorso di emancipazione borghese cui ambisce anche la sorella morbosamente legata a lui (un’intensa Paola Pitagora), Leone è il figlio con problemi psichici che lo rendono un minorato, mentre Sandro (l’attore svedese Lou Castel), pur sofferente di epilessia, a sua volta morbosamente attaccato alla sorella e in una lotta continua col fratello maggiore, manifesta preoccupanti segni di una personalità disturbata. Pian piano nella sua stanzetta – sorta di recesso di solitudine e inquietudine che ne fanno un diabolico uomo del sottosuolo – troverà il modo di sovvertire l’ordine familiare finendo col diventare simbolo – seppur in maniera parossistica – di tutte le inquietudini che agitano l’ordine costituito familiare e sociale.
Antonioni – L’incomunicabilità nella sfida col mondo anglosassone
A due anni di distanza da Il deserto rosso che aveva segnato il passaggio al colore, Michelangelo Antonioni decide di realizzare un film a Londra – la swinging London – usando come soggetto, come suggestione di partenza, uno dei più bei racconti di Julio Cortázar, Le bave del diavolo. In Blow-Up, il protagonista è Thomas (l’attore David Hammings) un fotografo di successo che però inizia a percepire un vuoto, una mancanza di senso che lo porteranno ad acuire la sua sensibilità. L’impressionabilità della pellicola fotografica diventa così la sua stessa fragilità in un meccanismo ossessivo attraverso cui l’obiettivo della sua macchina fotografica diventa l’occhio con cui guardare e comprendere la realtà intorno a lui, in grado di cogliere quei particolari che sfuggono a una prima impressione.
Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1967, con Blow-Up Antonioni è stato capace di portare splendidamente sullo schermo il cambiamento della società londinese tra studi fotografici, la rivoluzione della moda, i mimi che percorrono la città in una memorabile scena finale in cui Thomas si lascia andare all’immaginazione al potere – uno dei temi più forti dell’intero movimento. Blow-Up è un film iconico anche grazie alla capacità di coinvolgere quelli che diventeranno personaggi irripetibili di quegli anni: da Jimmy Page che con Jeff Beck compare proprio in un concerto degli Yardbirds, a Jane Birkin fino a Vanessa Redgrave passando per Michael Palin dei Monty Python e la modella Veruschka.
Continuando la sua esperienza con la MGM, nel 1970 Antonioni realizza Zabriskie Point stavolta attraversando l’oceano ed entrando nel pieno della contestazione americana. Il film si apre, infatti, proprio sulle belle facce di studenti americani in una riunione di un collettivo politico «La violenza fa parte della nostra cultura, è americana come il chewingum» – dirà uno degli studenti mentre si discute soprattutto del ruolo dei bianchi nell’occupare un movimento nato all’interno della comunità afroamericana (The Black Panthers: Vanguard of the Revolution di Stanley Nelson Jr. del 2015 è uno dei documentari più convincenti e completi sull’organizzazione rivoluzionaria afroamericana degli Stati Uniti d’America). Uno studente si alza «Anch’io sono pronto a morire ma non di noia» – dirà a una platea esterrefatta. È la svolta: Zabriskie Point, accusato all’epoca di non aver compreso il movimento americano, di superficialità (sic) è in realtà uno straordinario affresco poetico e un inno alla libertà. Dopo aver partecipato a degli scontri in cui – non lo sapremo – forse ha ucciso un agente, Mark (Mark Frechette) ruberà un monoplano per scappare verso il deserto, e lì in un’indimenticabile danza d’amore tra il suo aeroplano e una vecchia Buick conoscerà Daria (Daria Halprin) una ragazza che intrattiene una relazione con un uomo più grande – avvocato spregiudicato di una società immobiliare – che dovrà incontrare nella sua splendida casa a Phoenix.
L’incontro con Mark avverrà proprio allo Zabriskie Point nella Death Valley californiana, e lì l’amore tra i due si trasformerà in una meravigliosa scena totalmente psichedelica, una sorta di orgia lisergica, di moltiplicazione di persone come ologrammi ma anche omaggio alla stagione appena passata della Summer of Love. L’epilogo sarà tragico: illudendosi di poter scappare Mark tornerà indietro e sarà brutalmente ucciso dall’azione repressiva della polizia americana. Daria, che ascolterà la notizia per radio, non sarà mai più la stessa. E quando si troverà tra il lusso della casa del suo amante non riuscirà più a tollerare il compromesso con quel tipo di vita. Allontanandosi guarderà fisso verso la casa e la immaginerà scoppiare in milioni di pezzi in una delle scene ormai più celebri dell’intera storia del cinema con le musiche originali dei Pink Floyd ad accompagnare ogni momento del film (Blow-Up invece aveva goduto del piano elettrico di Herbie Hancock).
On the road e figli dei fiori – Il sessantotto a stelle e strisce
Ti parlano e ti riparlano di questa famosa libertà individuale ma quando vedono un individuo veramente libero allora hanno paura
Sul fronte americano il sessantotto segue solo in parte lo stesso schema. Naturalmente i fermenti che percorsero la spina dorsale degli Stati Uniti furono diversi e antecedenti; basti pensare che Il Manifesto di Port Huron del 1962 racchiudeva già i principali temi che avrebbero animato la contestazione – l’antimperialismo, l’antiautoritarismo, l’antimilitarismo – e, come già sottolineato, il sessantotto americano fu anche l’evoluzione delle lotte per i diritti civili soprattutto sul fronte afroamericano che sfociarono in una sete di giustizia capace di tenere annodati diversi fili. Fu soprattutto all’inizio, dunque, all’interno della comunità afroamericana e in quella in qualche modo parallela del mondo folk del Greenwich Village di New York, che emersero i prodromi della rivolta controculturale che avrebbe animato Berkeley.
Il sessantotto entra nel cinema americano con le noti tristi e dolcissime di The Sound of Silence che accompagnano il volto impietrito di un giovane Dustin Hoffman di ritorno dagli studi nel famosissimo incipit de Il Laureato. Uscito nel 1967 e diretto da Mike Nichols, The Graduate è in qualche modo manifesto del sessantotto senza quasi mai citarlo direttamente (se non in un fugace riferimento ai manifestanti a Berkeley). Il Laureato è il racconto di quella spinta d’insofferenza, d’improvvisa e devastante rottura col passato portata sullo schermo da un Dustin Hoffman sospeso sul baratro del proprio futuro. Una Mrs. Robinson indimenticabile (Anne Bancroft) incarna la seduzione di una borghesia che cerca di fagocitare la gioventù cercando di farla somigliare perpetuamente a se stessa. Sarà l’incontro con la figlia, Elaine, a spezzare l’apatia, il terrore della vita adulta in una delle scene più celebri della storia del cinema americano.
Anche dall’altra parte dell’oceano, dunque, il sessantotto cinematografico è storia di cambiamento che parte dai ragazzi, dai figli che si ribellano non solo al sistema politico ma prima ancora a una società e alle sue regole soprattutto morali che da quel momento in poi non saranno più le stesse.
Il cinema americano – a differenza di quello europeo – da Il Laureato in poi affronterà il sessantotto usando spesso la cifra della commedia, profonda certo e mai superficiale, capace però di portare sullo schermo non solo i tormenti che attraversano la nuova gioventù ma soprattutto la forza di vitalità, di allegria, di folle spensieratezza nell’affrontare e nel costruire il nuovo mondo americano e che porteranno alla nascita del movimento hippie fino alla Summer of love. È il caso del bellissimo Alice’s Restaurant di Arthur Penn che nel 1969 celebra il talento del musicista e attore Arlo Guthrie. Nel film Arlo è un giovane musicista spensierato e innamorato della vita che, proprio per questo, tenta in ogni modo di evitare l’arruolamento per il Vietnam che incombe minaccioso sulla sua vita e quella dei suoi amici. Tutto ruota intorno a una sorta di scanzonata comune creata in una chiesa sconsacrata da Alice e Ray e al loro ristorante. Arlo – nei panni di se stesso – fa la spola tra la sua grande famiglia e quella reale a New York, con il padre Woody che si sta spegnendo in un letto d’ospedale – in una stanza che vedrà nella realtà anche un giovane Bob Dylan tenere compagnia al grande vecchio del folk militante americano da cui raccoglierà l’eredità. Alice (l’incantevole Pat Quinn) e Ray sono insieme genitori e compagni, amici, fratelli di Arlo e dei tanti ragazzi che passano per la loro chiesa – la loro è un’utopia, un sogno che si scontra con le difficoltà quotidiane tanto che a poco a poco tra realtà e premonizione vedranno svanire il sogno di quella generazione in una diaspora tanto inevitabile quanto malinconica come nella lunga scena finale e con la minaccia dell’eroina ormai alle porte. Alice’s Restaurant è una commedia allegra, scanzonata, brillante – ritratto della generazione dei figli dei fiori alla ricerca del sogno – cui non mancano anche alcuni tra i simboli più ricorrenti di quella generazione come il Pulmino Volkswagen – ma che inizia, solo un anno dopo il sessantotto, a risentire di quella sensazione d’impossibilità nella realizzazione dell’utopia e che dona un sapore agrodolce agli ultimi minuti della pellicola.
Il tono da commedia, stavolta declinata però in chiave nera e grottesca, attraversa anche l’incredibile Harold & Maude, piccolo gioiello del 1971, flop d’incassi diventato però nel tempo film di culto. Hal Ashby racconta la storia del giovane Harold, ragazzino depresso che passa il tempo inscenando fantasiosi quanto esilaranti finti suicidi davanti a una madre asfissiante e partecipando ai funerali di gente che non conosce. Proprio durante uno di questi conoscerà la quasi ottantenne Maude – che scopriremo sopravvissuta allo sterminio nazista – e sarà attraverso i suoi insegnamenti e l’affetto di una profonda e sgangherata amicizia amorosa che scoprirà la voglia di vivere.
Più legato agli eventi della contestazione è invece un altro film di culto, Fragole e sangue (The Strawberry Statement) un film del 1970 diretto da Stuart Hagmann. Ambientato a San Francisco, segue le vicende di Simon, giovane universitario senza pensieri che entrerà nella facoltà occupata spinto solo dall’attrazione verso Linda che invece è nei collettivi che guidano la grande occupazione. A poco a poco Simon prenderà coscienza tanto degli ideali quanto delle idiosincrasie dei manifestanti dovendo fare i conti con le proprie scelte. È così che progressivamente la commedia lascia il posto a una tensione sempre più forte che culmina nella commovente scena finale con il violento sgombero della polizia mentre tutti i ragazzi inginocchiati cantano, battendo le mani sul parquet della palestra, Give Peace A Chance di John Lennon e Yoko Ono.
I film americani restituiscono l’atmosfera e lo spirito del tempo grazie anche a colonne sonore straordinarie che pescano a piene mani dai grandi autori di quegli anni. Fragole e sangue ci regala pezzi di Crosby, Still, Nash & Young, Joni Mitchell e ancora Neil Young. Harold & Maude è attraversato dalla freschezza dei pezzi di Cat Stevens mentre Alice’s Restaurant è legato a doppio filo all’omonimo pezzo di Arlo (che collaborò con Dylan tanto a inizio carriera che nella carovana della Rolling Thunder Revue). Simon & Garfunkel fanno naturalmente da colonna sonora a Il laureato.
Se esiste, però, un film americano che incarna più di tutti gli altri l’essenza più autentica del sessantotto, quello è Easy Rider. Nato da un’idea di Peter Fonda, Easy Rider si trasformò presto nel progetto a due teste tra Fonda e Dennis Hopper, con il primo alla produzione e il secondo alla regia (e naturalmente entrambi attori sui chopper californiani). Easy Rider diventerà il primo film indipendente a essere distribuito da una major (la Columbia Pictures) «cambiando – come ebbe a dire George Lucas – completamente l’idea per le corporation di che cosa fosse un film di successo».
Easy Rider è la storia di un viaggio – di un trip – di due hippie, due antieroi picareschi che cercano di portare – nascosta nei serbatoi delle loro moto – la cocaina acquistata in Messico in un viaggio che va dalla California fino alla Florida. Sul loro cammino incontreranno prima un altro hippie che li condurrà nella comune da lui fondata – ispirata alla vera e controversa comune di New Buffalo – da lì proseguiranno il loro viaggio finendo in prigione per aver partecipato senza permesso a una parata con le loro moto. Nella cella di un commissariato incontreranno George Hanson (un grandissimo Jack Nicholson cui il film restituì la voglia di recitare in un momento in cui si stava scegliendo la carriera esclusiva di regista), un avvocato per i diritti civili alcolizzato, e con lui affronteranno i pregiudizi e l’odio razziale e sociale dell’America più arretrata. Diretti a New Orleans, faranno tappa in un bordello, dove una voglia di libertà insaziabile li porterà per le strade durante le sfilate del martedì grasso. Con due prostitute finiranno quindi in un cimitero, dove ognuno prenderà un blotter di LSD dando vita a una delle più straordinarie sequenze registiche viste fino allora e ancora di grande potenza oggi, col montaggio, i filtri, il sonoro, tesi a rappresentare sul grande schermo tutte le sensazioni del viaggio lisergico.
La scena del cimitero è rappresentativa di tutto l’approccio al lavoro: fatti di acidi, di canne e di un misto di consapevolezza dello strappo che stavano per dare alla rappresentazione del cinema americano e allo stesso tempo di un approccio naïf, quasi dilettantesco alla materia filmica (sarà soprattutto l’ingresso alla direzione della fotografia di László Kovács a risollevare le sorti del progetto ancora in lavorazione). Hopper, geniale despota, arrivò a obbligare Peter Fonda ad abbracciare una statua nel cimitero e a parlarle come fosse la madre morta suicida quando lui aveva appena dieci anni. Tutta la scena è di un impatto emotivo fortissimo; lo stesso Fonda racconterà che – nonostante la sua opposizione iniziale e i suoi sentimenti ancora contrastanti – quella scena gli avrebbe però permesso di ottenere da Bob Dylan l’utilizzo di It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding) – che sarà cantata da Roger McGuinn dei Byrds – che parte subito dopo l’ultimo abbraccio di Fonda alla statua-madre con i suoi splendidi versi Suicide remarks are torn / From the fool’s gold mouthpiece / The hollow horn plays wasted words / Proves to warn that he not busy being born / Is busy dying a richiamare violentemente il gesto della madre di Fonda che si era tolta la vita tagliandosi la gola. E il contributo di Dylan – per molti versi giovanissimo padre spirituale del movimento – si aggiunse anche all’ultima scena quando, dopo aver visto l’inquadratura che lascia i due corpi a terra e si allarga fino a inquadrare il fiume – con la strada degli uomini da una parte e quella di Dio dall’altra – Dylan volle scrivere alcuni versi della canzone finale ancora affidata a McGuinn: The river flows / It flows to the sea / Wherever that river goes / That’s where I want to be / Go river go / Past the shaded tree / Flow river, flow / Flow to the sea.
Tutto il film è stato girato – come la storia su Dylan in qualche modo dimostra – senza un’idea di progetto precisa, quasi senza sceneggiatura con un senso d’improvvisazione costante, fino a trasformarsi in un inno di libertà assoluta capace di accendere l’immaginazione di milioni di giovani in tutto il mondo.
Easy Rider è per molti aspetti il film definitivo degli Stati Uniti sul sessantotto, quello più immediato, meno filtrato, più idealista, nato fin dal principio come nelle parole di Hopper «per raccontare la società amorale in cui vivevamo. Non credevamo più nella moralità della società, ne ignoravamo le leggi, tutti sembravamo fuorilegge in quell’epoca». È diventato fin da subito emblema stesso della controcultura perché capace di coglierne lo spirito anarchico lasciandosi allo stesso tempo attraversare però da una profonda malinconia e da un’angoscia di fondo. Qualcosa che va oltre il solo dato politico manifestandosi come un disagio prima ancora esistenziale, un’impossibilità di essere felici per conto proprio, dentro a una felicità privata che non sia coinvolta da quella del mondo intero.
Anche negli anni a venire il cinema americano continuerà a confrontarsi con la stagione del sessantotto: come nel capolavoro antimilitarista di Robert Altman M.A.S.H. (ambientato negli anni della guerra in Corea ma evidente specchio di quella del Vietnam) e ancora la bellissima rievocazione dei figli dei fiori affidata al genio e al calore umano di Miloš Forman nel 1979 con la versione cinematografica del musical Hair, e un altro musical, Jesus Christ Superstar di Norman Jewison del 1973, sarà fortemente intriso degli umori di quella stagione. Discorso a parte merita, naturalmente, Forrest Gump, road movie sui generis, diretto nel 1994 da Robert Zemeckis. Meglio gioventù americana ante litteram, è attraverso gli occhi – ancora una volta innocenti – di Forrest che passa tutta la storia americana dal dopoguerra in poi ed è soprattutto attraverso le esperienze di vita del suo unico grande amore – Jenny, interpretata da Robin Wright – che entriamo nell’atmosfera di quegli anni ancora una volta tra contestazioni, hippie, Pantere Nere ed è quasi come se Jenny incarnasse il corpo stesso dell’America e la sua parabola dall’innocenza alla perdizione.
Sous le pavés il y a la plage! Il sessantotto di Jean Luc Godard
Sul fronte francese invece tutto ruota intorno al talento e al genio di Jean-Luc Godard. Nel 1967 il regista – che probabilmente più di chiunque altro ha ispirato la nuova onda degli studenti francesi – consegna al pubblico La Cinese con Anne Wiazemsky (sua nuova musa che sposerà lo stesso anno), storia di un gruppo di giovani rivoluzionari maoisti che si preparano al sessantotto (maoista sarà, come abbiamo visto, Théo in The Dreamers). Ancora una volta anticipatore dei tempi, Godard costruisce un film che è una riflessione sulla sostanza e sulla forma dell’arte cinematografica e politica. Veronique (Wiazemsky) e Guillaume (Jean-Pierre Léaud, l’Antoine Doinel di Truffault) occupano insieme ad altri tre militanti la casa di uno di loro mentre i genitori sono in vacanza. Tra onnipresenti libretti rossi di Mao, scritte sui muri, lezioni di marxismo-leninismo e prove di rivoluzione, la tensione cresce in una sempre più deragliante confusione o identificazione tra pubblico e privato. Henri sarà espulso, Kirillov (proprio come il personaggio de I Demoni di Dostoevskij) impazzirà fino al suicidio mentre Yvonne (Juliet Berto) sembra la sola a incarnare nella sua ingenuità proletaria lo spirito originario della ribellione. Film godardiano per eccellenza, La Chinoise introduce – insieme a Week End – le ultime grandi novità formali del suo primo periodo. Attraverso la storia di cinque ragazzi esposti all’influenza culturale della crescente Rivoluzione Culturale Cinese – come del partito Comunista Francese e della Guerra del Vietnam – Godard anticipa in maniera assolutamente lungimirante i fermenti che avrebbero portato al maggio francese; allo stesso tempo il grande regista mantiene una posizione di ambiguità che porterà il film a essere inviso proprio alle autorità cinesi.
Come raccontato recentemente ne Le Redoutable di Michel Hazanavicius (2017) che ricostruisce proprio quell’anno dalle memorie di Anne Wiazemsky, Godard andrà sempre più in conflitto con i movimenti studenteschi fino ad affermare «del movimento degli studenti amo il movimento, non gli studenti». Del resto Godard è troppo intelligente, troppo colto, troppo libero per non vivere sulla propria pelle la grande contraddizione del movimento, quella rivoluzione antiborghese fatta in nome del proletariato proprio dai figli di una borghesia che mai sarebbero riusciti a rinnegarla del tutto.
Nel 1968 Godard gira ben tre opere. La prima è La Gaia Scienza che sarà presentata l’anno successivo. Può essere considerato il primo film del cosiddetto secondo periodo. È la storia di diversi incontri notturni immersi in una stanza nera senza alcuna scenografia: lei (Juliet Berto) è Patricia Lumumba figlia del leader congolese Patrice Lumumba, assassinato durante un colpo di Stato – mentre sua madre è la Rivoluzione culturale – delegata del terzo mondo, licenziata dalle officine Citroën perché aveva distribuito agli operai registratori per fornire prove dei soprusi dei padroni. Lui è Émile Rousseau (ancora Jean-Pierre Léaud) che è stato colpito al cuore da un proiettile mentre cercava di entrare all’università e si è salvato perché nella tasca della giacca aveva una copia dei Cahiers du cinéma. Ogni sera s’incontrano per parlare «Voglio imparare» – dice Patricia – «insegnare a me stessa, a tutti, a rivoltarsi contro il nemico e le armi con cui ci attacca: il linguaggio». Il film procede secondo tutta una serie di dialoghi tra i due, intervallati o sovrapposti a un numero considerevole di immagini; la voce fuori campo è quella dello stesso Godard che con questo film inizia una sorta di riflessione sul rapporto tra cinema, linguaggio e società. Alla fine dirà: «Questo film non vuole, non può voler spiegare il cinema, né costituirne l’oggetto, ma più modestamente fornire qualche efficace mezzo per arrivarci. Questo film non è il film da fare, ma se si ha un film da fare, si passerà senz’altro da qualcuno dei sentieri percorsi qui».
Un modello molto simile sarà utilizzato nello stesso anno per la realizzazione di One Plus One. Nato come film documentario sulle registrazioni di Beggars Banquet degli Stones che si affidarono di buon grado al talento del regista, prenderà nel tempo forme diverse e lontane dalle aspettative che Jagger e compagni avevano; voleranno insulti reciproci da parte degli Stones che in qualche modo delegittimeranno il film come da parte dello stesso Godard per le copie che gireranno con il nome di Symphaty for the Devil con un montaggio diverso.
«È un film che è stato girato contemporaneamente ai fatti del maggio ’68 a Parigi, un momento in cui mi si rinfacciava di essere andato a lavorare all’estero mentre tutto il popolo francese era in sciopero… E era un momento in cui ero abbastanza… ero, credo, sempre più sperduto. E cercavo di incollare dei pezzi, di trovare altri pezzi, cominciavo a filmare delle cose in modo separato. E visto che in giro c’era della musica, questo poteva offrirmi l’occasione per… In un primo momento dovevamo farlo con i Beatles, poi non si è più fatto… e abbiamo chiesto ai Rolling Stones… così… e loro hanno accettato. Era una produzione tutta inglese, io facevo solo il regista, e quindi… Così sono andate le cose. »
One Plus One segue sì gli Stones in sala di registrazione (uno studio bellissimo) permettendoci di assistere alle prove proprio di Symphaty for the Devil fra gli errori di Jagger, il ruolo sempre più predominante di Richards, lo spaesamento di Wyman e il progressivo disfacimento di Brian Jones che scompare letteralmente dallo studio nelle ultime take, ma Godard inframmezza il tutto con una serie di scene: si va dalle Pantere Nere in uno scasso che declamano passi da diverse opere e si preparano a un’immediata azione armata, alle stesse che uccidono delle donne vestite di bianco, e ancora alle scene con protagonista Anne Wiazemsky che viene intervistata da alcuni giornalisti vestiti coi colori primari tanto cari a Godard o che scrive sui muri della città frasi come Cinemarxism o Sovietcong.
Con One Plus One, Godard continua insomma su una nuova strada di rappresentazione cinematografica che irrita non poco il pubblico – e la critica – che vorrebbe replicati i successi della Nouvelle Vague o peggio ancora di una società borghese che desidera la rappresentazione cinematografica della rivoluzione ed è spaventata dalla rivoluzione cinematografica in sé.
L’ultimo film del 1968 di Godard è ancora un documentario, Un film comme les autres, stavolta girato con attori non professionisti, tre studenti e due operai. È un film ancora più ostico che radicalizza le soluzioni più recenti. Lontano da qualsiasi tentativo di rappresentazione spettacolare, in fase di montaggio e post-produzione Godard decostruisce il girato narrativamente come anche psicologicamente consegnando un’opera che è una sfida allo spettatore, nella speranza di una costruzione cinematografica che sia in grado di suscitare domande senza offrire risposte.
Il sessantotto lascerà un segno profondissimo in Godard che, dall’anno successivo, darà vita con altri cineasti al progetto autogestito e democratico del Gruppo Dziga Vertov (che non a caso si approprierà retroattivamente di Un film comme les autres) e che lo vedrà recluso in un cinema «non suo» fino al 1972. Godard, dunque, eccentrico e geniale ancora una volta, risponderà al sessantotto non con un cinema sul sessantotto ma con un cinema del sessantotto che – dominato soprattutto dalla personalità di Jean-Pierre Gorin – trasformerà una troupe cinematografica in uno specchio della nuova auspicata società rivoluzionaria.