Gli Editors stanno tornando. Il 9 Marzo uscirà infatti il nuovo album Violence, l’atteso seguito del fortunatissimo In Dream del 2015 risalente quindi ad ormai tre anni fa, un lasso di tempo considerevole di questi tempi. Il 22 Aprile torneranno dal vivo a Milano, al Forum di Assago, nel frattempo si sono fermati a Roma per partecipare al nuovo programma televisivo di Manuel Agnelli, Ossigeno. È così che ho l’occasione di incontrare Tom Smith, il leader indiscusso, Justin Lockey ed Ellioth Williams – rispettivamente chitarrista e multi-strumentista della band inglese, in un bellissimo albergo vicino alla Stazione Termini, per parlare del nuovo disco, della loro storia, del panorama musicale contemporaneo e tante altre cose.
Ciao ragazzi, come va? Siete a Roma per registrare il programma di Manuel Agnelli, come mai avete accettato, cosa ne pensate?
Tom Smith: Beh abbiamo accettato perché ce lo hanno chiesto! [ride] A dire il vero non ne sappiamo molto, forse ci puoi dire qualcosa in più tu.
Gli racconto un po’ chi è Manuel Agnelli e perché sia più o meno significativo che stia lanciando un programma sulla televisione nazionale ( – “oh allora si tratta di una cosa importante insomma”), e dopo grasse risate sulla loro partecipazione all’X-Factor italiano di qualche tempo fa – esperienza semi rinnegata ma anche goduta in pieno – entriamo nel vivo:
Penso che In Dream sia ad oggi il vostro miglior lavoro perché riesce ad unire molto bene gli Editors chitarra-centrici a quelli più synth wave. A questo punto cosa devono aspettarsi i fans dal nuovo disco? Avete ricercato nuovi elementi, nuovi suoni?
Tom Smith: Penso che Violence sia un In Dream migliore, più messo a fuoco. Per raggiungere questo risultato ci siamo affidati anche ad altre persone, produttori esterni, mentre per In Dream avevamo fatto tutto da soli, anche la produzione. Questo isolamento ha sicuramente reso l’album ciò che è, ed ha aiutato noi cinque, che avevamo appena iniziato a suonare con questa nuova formazione, a trovare coesione come gruppo. In questo nuovo lavoro abbiamo preso lo stesso orizzonte sonoro ma l’abbiamo definito meglio con l’aiuto esterno: credo quindi che si sia raggiunta una nuova dinamica, un nuovo equilibrio che non avevamo prima.
Cosa è cambiato nel mondo della musica indie oggi rispetto a quando avete iniziato voi?
Justin Lockey: Credo sia molto più difficile per una band fare qualunque cosa di questi tempi. Quando facciamo i nostri dischi noi siamo chiusi in una stanza con chitarra, amplificatori, pianoforti, sintetizzatori ed ogni genere di strumenti, questo perché abbiamo il tempo necessario a lavorare in questo modo. Quando sei agli inizi hai solo una chitarra e sei a suonare per ore in una stanza per conto tuo, poi dovresti prendere quel tipo di energia e portarla fuori nel mondo, facendo qualche piccolo concerto e cose del genere. Nessuno adesso può permettersi di fare questo tipo di percorso perché non c’è nessun tipo di tipo di ritorno nel farlo, dischi non se ne vendono più e quando sei alle prime armi non puoi ovviamente neanche fare concerti a pagamento. Non ci si può letteralmente permettere a livello economico di essere in una band, almeno la maggior parte delle persone non può. Quindi anche per questo credo che a partire dalla metà degli anni ’00 ci sia stato un declino nelle band Indie, oltre a un cambiamento di gusti nel mondo musicale. Le etichette discografiche hanno iniziato a fregarsene delle chitarre e dei gruppi “chitarra-centrici” in generale perché non ci si può fare un guadagno veloce e sicuro, costano tantissimo a livello di produzione anche solo per un disco.
Parlando del cambiamento di gusti, al declino di cui parlavi della musica indie di un certo tipo si è contrapposto un rinascimento clamoroso della Black Music in genere e soprattutto di rap ed hip-hop. Cosa ne pensi?
Justin: Beh, vedi se le guitar-bands fossero intelligenti dovrebbero far ciò che ha sempre fatto l’hip-hop: avere la propria scena di riferimento, il proprio mondo con le proprie regole. Le band Indie hanno sempre tratto ispirazione da ciò che li precedeva, mentre l’hip-hop tende a guardare in avanti, è un genere volto alla sperimentazione, traggono ispirazione liberamente, apertamente ed organicamente dal resto del mondo Black, mentre la guitar-music tende ad isolarsi. L’hip-hop non nasce ora ma si trova in cima alla catena alimentare perché è più punk di qualsiasi band indie. Escono con cose che fanno a pezzi tutto il resto, così ti ritrovi il fottuto Kendrick Lamar a firmare la colonna sonora di Black Panther creando il panico, vedono una cosa [nel mondo rap] e poi la fanno succedere, la realizzano. Nel mondo indie “vedono” una cosa, pensano di farla accadere ma poi si mettono a twittare dai loro fottuti telefoni perché ci sarebbe troppo lavoro da fare.
Ellioth Williams: Questa cosa fino ad una quindicina di anni fa la facevano anche le band Indie ma ora devono trovare una nuova voce, reinventarsi.
Justin: L’hip-hop già spopoleggiava e guadagnava su internet quando gli altri ancora non avevano capito cosa farci, e i dischi si ascoltavano lì. Sono stati fra i primi a sfruttare una nuova piattaforma a loro vantaggio quindi di nuovo, in un certo senso, sono molto più punk dei punk originali.
E allora che album state ascoltando in questo periodo, e quali album mentre lavoravate a Violence?
Tom: In questo periodo sto ascoltando molto i dischi di Nils Frahm, la colonna sonora perfetta per aggiornare il proprio blog mentre si è da Starbucks [ride]. Mentre lavoravamo al disco non saprei, cosa ascoltavamo?
Justin: Tu ascoltavi un sacco Scott Walker! [indica Elliott]
Elliott: [ride] Sì è vero, anche se non penso che si riesca a percepire molto ascoltandolo..
Justin: È difficile mentre stai facendo un disco ascoltare le cose e non rimanerne influenzati, quindi io tendo ad isolarmi un po’ in quei periodi.
Tom: Ora che ricordo mentre lavoravamo a Violence uscì l’ultimo di Bon Iver, un album incredibile e molto “millenial” perché non puoi veramente capire ciò che sta dicendo nei testi, le melodie e la produzione sono meravigliosi , è una perfetta colonna sonora per gli “intellettuali” con il deficit d’attenzione che esistono oggi. Capito cosa intendo? In un certo senso la sua musica non è molto onesta perché non puoi veramente dire di seguire e capire ciò che sta dicendo, è solo lì ed è bello.
Come si fa a superare bene come avete fatto voi l’uscita di un membro importante dalla band?
Tom: Con un bel po’ di fortuna…
Justin: Sostituirlo con i migliori tipo che trovi in giro! [ridono]
Tom: Diciamo che non c’è stato chissà quanto tempo per arrovellarcisi, avevamo un tour pieno di date da portare a termine e quindi sono subentrati gli altri, semplicemente ti muovi in avanti sperando che le cose funzionino. Abbiamo anche dovuto resettare la mente ed entrare nella modalità “band” perché prima eravamo io e Chris a portare avanti tutto, tutto ciò funzionava bene, ma anche quel meccanismo ad un certo punto ha smesso di funzionare. Ora col fatto che siamo cinque c’è un approccio diverso, ognuno ha qualcosa da dire e c’è maggiore confronto.
Nella vostra musica è sempre presente un elemento epico, quasi barocco. Lo ricercate o è semplicemente una caratteristiche che si manifesta nella fase di composizione e arrangiamento?
Tom: Sicuramente amiamo inserire l’elemento drammatico nella nostra musica. Che sia un riff di chitarra, delle progressioni di accordi che evocano quell’atmosfera o la struttura specifica di una canzone che cambia mood all’improvviso, sono tutti elementi che amiamo fin dai primi giorni di vita degli Editors. Ora che siamo in cinque ognuno di noi ha anche diversi input sonori da cui possiamo attingere, penso che ad esempio le vibrazioni dei dischi di Fram siano stati un’influenza recente in questo senso.
Nel nostro paese avete suonato diverse volte, oltre ad aver avuto esperienze particolari (come X-Factor e il concertone del primo maggio qui a Roma). In generale com’è il rapporto con l’Italia?
Tom: L’Italia è il posto perfetto per gli Editors! Noi cerchiamo di fare musica intrisa di passione, canzoni che abbiano risonanza a livello emotivo e le suoniamo con altrettanta energia. La passione è italiana per definizione, la prima cosa che ho percepito dal pubblico italiano è stata proprio questa, questa risonanza a livello emotivo e passionale. Forse il feeling che c’è ha anche a che fare con la vostra storia, quell’immaginario e simbolismo gotico, cattolico…
Al mio orecchio Violence suona più pop rispetto ai suoi predecessori ma ha dei testi molto cupi, vi concentrate anche su temi sociali e politici attuali, come nel singolo Magazine. Il “nuovo” suono è un modo per far arrivare di più i testi agli ascoltatori?
Tom: Wow, non lo so, non so perché certe canzoni arrivino ad un certo momento della propria carriera. Credo che i pezzi di questo disco siano più immediati melodicamente, funzionano meglio rispetto a quelli di In Dream, cosa che ha coinciso con le nuove collaborazioni nate per questo disco. Però no, non c’è un legame pensato con i testi, li ho scritti prima di avere idea di come avrebbe suonato il disco. Sicuramente quest’album ha una forte connessione con il mondo in cui viviamo, con questo momento storico, il qui ed ora. Il focus però è sulle persone, sulle connessioni tra le persone, sulle loro relazioni, le scintille che si creano fra due persone come forma di fuga dal mondo violento che c’è fuori. Questo non fa sì che Violence sia un disco politico, non porta con sé nessun tipo di messaggio, vuole solo essere una rappresentazione della connessione fra l’essere umano e la realtà che lo circonda.
Credo sia giusto che ci siano persone che hanno un’opinione, qualcosa da dire sul mondo che ci circonda ma io sono sempre venuto da un altro posto, sono meno uno storyteller e più a mio agio in un luogo in cui domina l’ambiguità: non mi piacciono le canzoni che ti dicono cosa pensare. Ad esempio per Hallelujah siamo andati a visitare un campo profughi in Grecia ed ovviamente è stata un’esperienza commovente che ha lasciato un segno importante su tutti noi. Tornato a casa ho scritto le parole per la canzone, che però non parla in modo diretto di quella esperienza ma al contrario è stata l’esperienza stessa a dettarmi quelle parole senza che fossero esplicitamente legate ad essa.
Notate differenze sostanziali fra il pubblico dei vostri primi concerti e quello di ora?
Tom: Primo concerto: tutti maschi. Tutti fra i quattordici ed i sedici anni. Secondo disco, qualche ragazza in più. Terzo disco ci siamo presi tuuuutte le ragazze, veramente tutte [ride]. Però sì, a parte gli scherzi c’è sicuramente una maggiore presenza femminile ora rispetto al passato, non tanto grazie a questi due ovviamente [indica Justin ed Elliott ridendo]. Non so, la nostra musica all’inizio era molto energica a livello cinetico, ora si appoggia più sul groove, l’estetica è la stessa ma forse attrae un pubblico diverso.
Elliott: C’è anche una parte di pubblico che magari c’è solo per quel disco in particolare e basta…
Tom: Sì penso che ovviamente ora abbiamo superato il momento in cui le persone si aspettano di sentire ancora i primi due dischi, i fans che ci sono ora magari hanno cominciato a seguirci dal terzo o quarto.
Tom, il disco si chiude con un verso in particolare “welcome home”. A chi stai dando il benvenuto a casa?
Tom: Mmh, non saprei… quella canzone è su una relazione che sfocia quasi nell’ossessione, forse sto parlando a mia moglie ma certamente non è una canzone romantica perché c’è una dose non indifferente di rabbia dentro, nonostante poi ci sia una risoluzione alla fine. Tutto il disco in realtà ha questo mood dello stare in una stanza, chiudere le tende e isolarsi dal mondo esterno. Non sto dicendo che bisogna ignorare ciò che succede di fuori, solo che ci sono momenti in cui staccare tutto e stare solo con se stessi è salutare. C’era un tempo in cui potevi sentire le notizie dal telegiornale solo una volta al giorno. Ora siamo bombardati tutto il tempo, quindi fa bene spegnere tutto, concentrarsi su cosa si ha davanti.
Il tempo a mio disposizione è finito. Seguendo il consiglio di Tom ci concentriamo su quello che abbiamo davanti, quattro bei boccali di birra, e buttiamo giù quello che rimane.