Bologna, Estragon, sera di San Valentino. Il grande capannone spoglio celebre certo non per la sua estetica è già pieno ma non pienissimo, quando sul palco sale The Pictish Trail, dietro cui si cela lo scozzese Johnny Lynch, giusto per rimanere in zona, chiamato a riscaldare la serata. Ma l’attesa è tutta per i Belle and Sebastian, che sono stati a Bologna per l’ultima volta ben sedici anni fa, nel 2002, come ci informa dopo l’esecuzione del primo pezzo Stuart Murdoch, leader carismatico della band e adolescente mai redento. Il mondo dei front-man è distribuito in una moltitudine di tipologie diverse, e Murdoch, bisogna ammetterlo, ne ha introdotta una davvero difficile da riprodurre. Subito dopo che i compagni hanno deposto gli strumenti, saluta il pubblico con il suo aplomb gentile e garbato e chiede sorridendo chi è che c’era in quella occasione, quindi punta il dito verso persone a caso che hanno alzato la mano e le etichette con battute del tipo “hey, sei rimasto proprio lo stesso!”, o “vedo qualche capello bianco laggiù”, e ancora “ti farà piacere sentire il prossimo pezzo, così ci dici se è cambiato dall’ultima volta”.
A dispetto dei cambi succedutisi nel gruppo in questi sedici anni, la più sentita è sicuramente quella della vocalist femminile praticamente fondatrice, Isobel Campbell, avvenuta proprio nel 2002 – Murdoch lo sottolinea lanciando un’occhiata a Sarah Martin, che ne sostituisce le parti cantate – in realtà i Belle and Sebastian appaiono davvero in forma come nelle prime uscite, carichi dello stesso entusiasmo e trascinanti come è tradizione consolidata nei loro live. Quando la band dà avvio allo show siamo introdotti senza troppi indugi da Nobody’s Empire, uno dei pezzi dell’ultimo LP Girls in Peacetime Want to Dance, del 2015, che come tutti quelli più recenti in scaletta è abbinato a un filmato, in questo caso allestito con una serie di spezzoni del passato di Glasgow in un densissimo bianco e nero. In realtà però a parte un paio dei pezzi tratti dai tre EP How to Solve Our Human Problems, a cui il tour è intitolato – We Were Beautiful e Sweet Dew Lee dal vol.1, The Same Star dal vol. 2, nessuno dall’ultimo, appena uscito, vol. 3 – la maggior parte dell’esibizione è dedicata ai vecchi classici, in cui lo schermo alle spalle della band resta statico ma è illuminato da sfondi coloratissimi che insieme alle luci dei faretti costruiscono sgargianti coreografie visive, o vi si proietta sopra la cover del disco da cui il brano è tratto. Infatti, subito dopo l’introduzione il pubblico si lascia andare alle danze sulle prime note del classico I’m a Cockoo, seguiti da If She Wants Me, Another Sunny Day, Like Dylan in the Movies, Piazza New York Catcher, Judy and the Dream of Horses, per giungere al momento più delirante della serata su The Boy With the Arab Strap, quando Murdoch invita sul palco il pubblico a ballare, e come in un film americano, la band continua a suonare mentre il cantante danza insieme a una quindicina di persone che hanno accolto il suo invito.
Ho ragione di credere che siano momenti come questi che ti fanno pensare che valga la pena aver visto un concerto di questo tipo a Bologna, piuttosto che a Milano, in cui probabilmente Murdoch avrebbe trovato meno botta nel pubblico per proseguire con le sue chiacchiere sul tutto e sul nulla. Procedono con questa ispirazione le due ore di generosa performance di una band capace di trasmettere energie e positività come poche altre sono capaci, nonché di rendere unica la performance attraverso piccoli momenti di vita da tour accompagnati dai malinconici commenti di Murdoch sul fatto che non è mai possibile vedere per bene le città visitate, come quando proietta alcune immagini di piazza Medaglie D’Oro negli anni Sessanta, o un filmato realizzato nell’ultimo tratto del viaggio in treno, quando sono arrivati stazione centrale.
Inoltre, ricordandosi di San Valentino, la band decide di omaggiare le coppie distribuendo fiori del palco e allestendo una cover di Love Is in the Air in cui Murdoch si lancia in un duetto con Johnny Lynch, tornato sul palco insieme alla moltitudine durante la precedente esecuzione del più famoso classico della band. Le luci si spengono e si riaccendono per l’encore, aperto da una intensissima Fox in the snow e concluso da un altro pezzo dall’ultimo LP, come quello che aveva aperto il concerto, in questo caso il danzereccio The Party Line, una scelta che suscita una certa perplessità in molti ma che conclude il concerto secondo lo spirito con cui era cominciato, quello di una festa che duri due ore. La performance è impeccabile, l’atmosfera unica, e quando Murdoch si congeda dal pubblico con un ultimo e definitivo saluto, ognuno lascia il capannone dell’Estragon con la sensazione che fuori possa esserci davvero un mondo migliore.