Succede nei primi minuti del primo episodio della prima stagione di Sons of Anarchy, così, giusto per mettere le cose in chiaro subito e non lasciare adito a nessuna eventuale recriminazione a tema “mi sarei aspettato qualcosa di diverso”. Jax è in ospedale, ha appena scoperto che suo figlio potrebbe nascere con gravi problemi congeniti o non nascere affatto perché la sua ex-moglie ha avuto la brillante idea di farsi di anfetamine durante i mesi precedenti al parto: ringrazia i medici, chiude la bocca a sua madre con un gesto della mano giusto prima che lei dica qualcosa di simile a “Fermati!” ed esce dal corridoio del reparto adducendo l’unica motivazione plausibile — “Devo fare una cosa.” — mentre Clay ordina perentorio agli altri “Copritelo!”. La “cosa” è, manco a dirlo, andare a pestare a sangue lo spacciatore, che sta giocando a biliardo in un bar vicino: entra nella sala, prende una stecca inutilizzata e la usa per spaccargli la faccia, poi gliela pianta tra le gambe frantumandogli i “gioielli” e andrebbe avanti sulla stessa falsariga all’infinito, se Chibs non lo fermasse trattenendolo e dicendogli “Direi che ti sei spiegato abbastanza bene.”
La prima volta che ho visto la scena, nell’esatto istante in cui il principino dei SAMCRO sussurra “Devo fare una cosa.”, ho pensato: qui ci starebbe una canzone dei Black Rebel Motorcycle Club. Manco a dirlo, ancora doveva finire di comporsi sulle labbra quel “Devo fare” che è partito il giro di basso distorto di Stop.
Non che abbia capacità divinatorie, o il sound designer della serie poca fantasia, è che il rock è così: splendidamente prevedibile, granitico nelle sue convinzioni e nel modo diretto che ha di esporle, istintivo, impulsivo, compulsivo. Non ama le sorprese, fa la prima cosa che gli viene in mente e continuerebbe a rifarla per un disco intero: è pretty self-explanatory, si spiega da solo, non ha bisogno di un foglietto illustrativo, se non quello dell’antidolorifico che ti serve dopo che ti ha preso a calci. È il “manco a dirlo” declinato in quattro accordi e cinque note, eppure crea dipendenza, in quanto variazione costante sul suo stesso tema: una roba confortante a livelli tossici, tribale e aggregante come poche altre. Puoi provare a contaminarlo, sporcarlo un po’ con qualche tocchetto sparuto di altri generi musicali, e spesso funziona, se non si calca troppo la mano: ma tentare di cambiarlo è una mission impossible che non ha — ancor prima di nessuna speranza di riuscire — la minima ragione di esistere. Un’impresa senza senso, categorizzabile alla voce “lotta contro i mulini a vento”, dove, nello specifico, l’unico modo per uscirne illesi sarebbe rivedere la tua iconografia di eroe, introducendo un Don Chisciotte con le borchie a cavallo di una Harley Davidson, a sua volta materializzazione meccanica di un Ronzinante dalla marmitta modificata che, lasciandoti lì impalato a mangiare fumi di scarico, ti ricorderebbe per sempre la verità nuda e cruda: non si sconfigge nè si intacca una fede. Soprattutto quella che venera un Gesù senza chiodi, ma con il chiodo.
Questo è fondamentalmente il motivo per cui mi è sempre scappato un po’ da ridere, mentre assistevo — da spettatore interessato, lurker che se l’è goduta non poco — alla diatriba, iniziata ai tempi del loro omonimo debutto nel 2001 e praticamente mai sopita (anzi, sapientemente riattizzata, in occasione di ogni nuova uscita, da chi li accusava di ripassare sempre gli stessi solchi o girare più o meno intorno al medesimo groove) in mezzo alla quale i Black Rebel Motorcycle Club hanno costantemente vissuto, quella che li ha visti annaspare nei vortici creati da due correnti contrapposte: l’adorazione di uno zoccolo duro di fanatici a prescindere e la derisione — a tratti sprezzante — di quelli a sentire i quali una qualunque cerimonia che santifichi anche minimamente il passato è ipso facto una cosa inutile, indipendentemente dalla qualità della liturgia e dal valore delle tradizioni tenute in vita.
Ammetto di aver sempre guardato più con sospetto questi ultimi (sui primi c’è poco da dire, se non assestarsi su un salomonico “al cuor non si comanda”): venti anni fa vedevano i BRMC come la brutta copia patinata per MTV dei Jesus and Mary Chain (e io pensavo che difficilmente un gruppo al suo primo disco finisce per risultare del tutto originale — e che, appurato questo, se proprio devi assomigliare a qualcuno, può andare molto peggio), oggi concludono sarcastici a rosicare che, visto che la band di San Francisco è riuscita, dopo una carriera passata — a dir loro — a scopiazzare i grandi della storia del rock, a diventare essa stessa storia del rock, adesso non potrà fare altro che iniziare a scopiazzare se stessa (e io continuo a pensare che chiedere al rock di reinventare la ruota è più da prevenuti che da illusi, e che il giorno che i Black Rebel Motorcycle Club proveranno a riciclarsi come “collettivo creativo sperimentale” buttandosi sulla dubstep sarò il primo ad alzare le mani e a chiamarmi fuori).
Peter Hayes e Robert Levon Been, dal canto loro, sono riusciti sempre a tenere un atteggiamento distaccato e super partes, distinguendosi dai proprio contemporanei (e in diciassette anni di contemporanei ne hanno avuti un bel po’), occupati come erano a perfezionare quel loro ibrido di garage e shoegaze, blues e psichedelia che è diventato — come un puzzle i cui pezzi, combinati diversamente da quanto indicato nelle istruzioni, vanno a formare un’immagine che poco ha a che vedere con quella immortalata sulla scatola, ma altrettanto bella — a tutti gli effetti, un trademark originale.
Sì, perché i Black Rebel Motorcycle Club, in tutto questo tempo sulla breccia, hanno dimostrato di esistere in uno spazio che va al di là del tempo, una terra di nessuno in cui discorsi su influenze più o meno pesanti o revisionismo storico più o meno premeditato perdono progressivamente significato. Il loro sound non invecchia: respira. Prende fiato e sputa anidride carbonica. Per questo non potrà mai risultare datato: perché estrae il proprio DNA dalla spina dorsale delle fondamenta della musica stessa. Può ondeggiare tra un riferimento e l’altro, ricordare uno o più mostri sacri contemporanemente, ma questo semplicemente perché è composto con la stessa perizia e va a toccare le stesse corde: è compatto e deciso, trasuda minacce oscure e la paura di tutto ciò che non è stato detto, o peggio non compreso, o peggio ancora dimenticato.
Per quanto possiate considerare il rock banale, converrete che, se di rock si deve parlare, la cosa più difficile è riuscire a non essere banali nel rock. Ecco, questo con i BRMC non succede mai, perché la band californiana ha un talento unico nel riuscire a implementare stili diversi raccontando un’unica visione, a srotolare un concetto sdoganato di rock da un unico intricato gomitolo in innumerevoli fili di lana grezza da sferruzzare di nuovo a proprio piacimento.
I Black Rebel Motorcycle Club sanno benissimo in cosa sono bravi, o in cosa almeno la gente li considera bravi: pezzi dritti e compatti di garage sporco senza se e senza ma. E infatti non è un caso se i due singoli che inizialmente hanno anticipato l’uscita di Wrong Creatures sono stati Little Thing Gone Wild e King of Bones: la prima, con il suo ritmo pestato e la sua atmosfera da rito voodoo blues, ti acchiappa subito, facendoti sentire come quando hai guardato dieci puntate di fila di uno show di Netflix e, pur non sopportandone ormai più il tema principale, non riesci a fare a meno di rivederne ogni volta la sigla — la seconda un po’ più tenebrosa, vagamente futuristica, prende le chitarre e le distorce in deviazioni quasi elettroniche, dimostrando che, anche in un terreno stra-battuto come questo, almeno in termini di suoni, c’è ancora un po’ di margine per andare a cercare qualcosa di fresco.
È in parte una sorpresa, quindi, realizzare come questo nuovo lavoro trovi la sua vera ragione di esistere all’interno del catalogo dei BMRC grazie (invece e soprattutto) ai suoi pezzi più cinematici e ariosi, quelli dove il “tiro” e la spavalderia si sciolgono in una psichedelia quasi commovente. Il merito sicuramente va in parte anche alla produzione di Nick Launay che, forte delle precedenti esperienze con Nick Cave e Arcade Fire, è riuscito a isolare il nucleo vitale del suono della band — quel bozzolo gonfio di rumore scorticato che aveva bisogno degli occhiali da sole scuri anche dopo il tramonto — portandone in superficie dettagli che prima erano solo vagamente intrappolati al suo interno. Così Haunt diventa un languido lamento d’amore di ambientazione lynchana che mette in fila tutti i tentativi più spettrali dei Calexico, Echo (in cui la voce di Hayes raggiunge dei picchi di genuina, sinceramente inaspettata, emozione) un turbinio magmatico che dona finalmente la pace al fantasma dei Velvet Underground, Question of Faith una serpe fascinosa e tremolante, pronta per la colonna sonora di un film di Vincent Gallo, Calling Them Away la ripetizione ossessiva di un mantra che, sull’orlo dell’ipnosi, si apre in un crescendo epico che ti lascia senza fiato e Circus Bazooko il calembour che non avevi previsto, uno scherzo di valzer a tinte groovy, che sembra scritto apposta per la festa di compleanno della nipotina di B.B. King. Se il biglietto di invito alla festa della piccola indicasse come location un locale di (Paura e Delirio a) Las Vegas, s’intende.
“It’s only rock’n’roll (but I like it)”, ha detto qualcuno che di rock’n’roll se ne intende. Forse non è la citazione più adatta da tirare in ballo, visto che quello dei BRMC non è solo rock’n’roll, ma fa niente, dal momento che il punto è un altro. Ovvero il punto è che, anche se lo fosse, solo rock’n’roll, rimane il fatto — difficilmente confutabile — che, al giorno d’oggi, soprattutto tra le band che ci han provato a partire dagli anni zero, rimangono quelli che sanno farlo meglio, con un taglio personale, soluzioni stilistiche riconoscibili e quasi mai scontate e un suono moderno, lontanissimo da una qualunque puzza di stantìo. In parole povere — poche ma brutali — i Black Rebel Motorcycle Club sono tra quelli (il resto si conta sulle dita della mano destra di Toni Iommi: Jack White, i Black Angels, i Kills — chi altro?) che ancora, nel 2018, riescono a suonare rock senza risultare ridicoli, cosa che, a dispetto dell’ovvietà del concetto, non è affatto un risultato scontato. Non dimentichiamoci che questa è la band che, all’alba del nuovo millennio – un periodo storico in cui “tutto” era morto e durante il quale, se volevi specificare una sorta di appartenenza dichiarata a un vago concetto di “punk”, dovevi inserirlo tra parentesi nel titolo – è riuscita a permettersi uno strascicatissimo “Yeeeah!” nel ritornello di una canzone senza risultare cafona. La band che aspettava sull’altra riva quando il rock’n’roll ha tentato la fortuna gettandosi completamente vestito in mezzo alle rapide, nella speranza di attraversare il fiume in piena del cambio di stagione. La band che gli ha lanciato una corda e l’ha tenuto a galla per tutto il tempo necessario, che alla fine ne ha riprogrammato il codice senza cambiarne l’output, alla faccia del millennium bug.
Il rock’n’roll è uomo d’onore e debiti di una tale portata non li dimentica. Deve essere per questo che, nonostante tutta l’acqua che è passata sotto (ma anche sopra, soprattutto addosso – la morte nel backstage per arresto cardiaco del padre di Levon Been, sound engineer della band, e la conseguente depressione del bassista, la malattia al cervello della batterista Leah Shapiro, risolta solo grazie a un intervento chirurgico pagato per mezzo di un crowdfunding tra i fan del gruppo) al loro ponte, i Black Rebel Motorcycle Club hanno ancora quel tocco magico che li mantiene – né giovani né vecchi – in un limbo privilegiato in cui non sei di moda, ma nemmeno fuori moda: sei semplicemente, grazie a Dio, al di sopra di qualunque moda. Come il rock’n’roll del resto, almeno un tempo.
Già, perché Whatever Happened to My Rock’n’Roll? è una domanda che – oggi come ieri, oggi più di ieri – in un momento in cui la legittimità e l’eredità del rock sono costantemente messe in discussione e in cui il rock stesso si vede sempre più relegato ai margini in termini di presenza nella cultura pop, suona tremendamente attuale, nel suo appello potenzialmente inascoltato. Wrong Creatures ci dà una risposta secca e sana, ampiamente argomentata a suon di ottimi pezzi: vivi o non morti, resuscitati o risorti, fate voi. Ma se vi state ancora chiedendo che fine ha fatto quella cosa che vi prendeva per la gola scuotendovi contro il muro quando avevate ancora i capelli, che vi faceva battere il piede a tempo e muovere il bacino come fosse il pezzo del corpo di un altro, l’impressione è che non siate ancora riusciti a uscire dalla sceneggiatura di un thriller da quattro soldi, di quelli in cui la soluzione è lì, esattamente dove non la cerchereste mai: sotto i vostri occhi.
In caso non ve ne foste accorti, i Black Rebel Motorcycle Club lo stanno suonando da tempo, lo stanno suonando forte e lo stanno suonando bene.
Eccolo qua, il vostro (nostro) cazzo di rock’n’roll.