Entrare in una piccola libreria nella piazza di un paese bagnato dal mare, con l’estate che sta finendo, ed essere attrattati da una foto di John Wink: una casa sull’acqua, un mare reso plumbeo da minacciose nuvole che annunciano l’imminente tempesta. Il corteggiamento si sa, è questione di sguardi, il marchio Adelphi, invece, la certezza che la fiducia istintiva possa non tramutarsi in azzardo.
Dentro quelle pagine ci sono due uomini, due donne e un unico paese, la Cambogia popolata dai khmer, non più rossi, dai barang, bianchi europei in cerca di fortuna e, soprattutto, dai fantasmi che aleggiano in notti umide cariche di pioggia ed elettricità. È in una notte come queste che si solleva il sipario su un luogo che si farà simbolo, un confine, quello tra Thailandia e Cambogia dove una vincita casuale al casinò si trasformerà in una strada da prendere, in un segno che si vuol cogliere: lancio di dadi che lentamente ma in maniera inesorabile condurrà al compiersi inevitabile dei destini dei protagonisti.
Al centro della storia l’incontro tra due barang: Robert, giovane insegnante inglese del Sussex, ventotto anni, figlio in fuga da una stretta via cui la vita sembra averlo già inchiodato e Simon Beaucamp, americano, elegante avventuriero già da anni in Cambogia. Il primo, per ambientarsi, ha bisogno di una guida locale, Ouksa, che lo conduce non solo attraverso le strade del paese ma anche all’interno delle sue credenze, della sua spiritualità, dei templi divorati dal passato e dalla vegetazione lussureggiante, dagli spiriti che la percorrono. E Beaucamp assomiglia proprio a uno di questi quando, vestito in un impeccabile completo bianco, apparirà per la prima volta sulla scala di un tempio. La fascinazione su Robert è immediata, come immediata è la consapevolezza, in un misto d’ingenuità e ricerca inconscia del rischio, che porterà il giovane professore a fidarsi di lui.
Cacciatori nel buio è un thriller del sessantenne inglese Lawrence Osborne, autore della genia dei Graham Greene, dei Paul Bowles, vale a dire di quegli scrittori viaggiatori tra mondi diversi (nel suo caso Parigi, la Turchia, il Marocco, Bangkok) che portano addosso, insieme ai propri abiti firmati, la morbida eleganza delle parole con cui tessono il racconto consegnando al lettore, al posto della curiosità verso un oriente misterioso, la ricerca di uno specchio esotico e deformante dove più nitido appare, improvviso, il vuoto di senso che attraversa le viti occidentali, perennemente coperte da quella patina di rumore spazzato via violentemente al contatto con l’aria densa di luoghi lontani che non lasciano più alcuna possibilità di fuga da se stessi.
Un romanzo che è insieme un gioco di scambi e uno di specchi. Due uomini ma anche due donne bellissime: Sophal, figlia di un medico borghese che incrocia il percorso di Robert, Sothea conturbante presenza che accompagna Beaucamp. Cacciatori nel buio, soprattutto è un noir capace di avvolgerti nell’indolenza cambogiana, nel fumo delle sigarette Alain Delon che si accendono e si spengono di continuo e che riescono con naturalezza a entrare nel club delle sigarette letterarie (in compagnia, tra le altre, delle Gauloises delle notti parigine di Cortázar e delle Delicados dei vagabondi dell’anima di Bolaño) mentre il romanzo, con uno scarto notevole, che lo strappa dalle trappole del genere, riesce a farsi storia del paese che gli fa da scenario, attraverso la figura di un poliziotto corrotto che con improvvisi scollamenti temporali ci lascia appena intravedere l’orrore dell’anno zero della dittatura khmer. È vano il tentativo di lasciarsi il passato alle spalle mentre, quasi ci pare di sentire, insieme ai protagonisti, i milioni di morti che vagano di notte per le strade, come una cappa in cerca di giustizia che impedisce la possibilità di tornare davvero a vivere, mentre la vita, quella reale, sembra assumere le sembianze di una maschera che prova a voltarsi dall’altra parte per non ricordare le atrocità che non le lasciano scampo.
E poi, alla fine gli uomini bianchi non erano uguali? Cosa stavano cercando? Non lo sapevano neanche. Suo padre usava una bella espressione che veniva dai libri di storia: cacciatori nel buio; indicava gli irrequieti cortigiani della corte imperiale nel Giappone medioevale, sempre a caccia di vantaggi personali. Ma anche, come amava aggiungere suo padre, della felicità. Era il suo modo preferito per riassumere i giovani contemporanei. La sua generazione devastata era un’altra questione.