Loyle Carner ha soltanto 22 anni e il suo disco di esordio, Yesterday’s Gone, è stato subito candidato al Mercury Prize, gli Oscar della musica inglesi che, negli anni, hanno vinto gente come James Blake e PJ Harvey, per intenderci. Carner scrive in rima ed è nato a sud di Londra ma, a differenza della stragrande maggioranza dei suoi coetanei, non nasconde la sua voce sotto il vocoder, non si appoggia su basi afro-caraibiche, non fa grime. Loyle Carner suona old-school, dalla prima all’ultima nota. Chitarra, piano, basso, sax, cori gospel; a ispirarlo sembrano essere soltanto le atmosfere di Madlib, i beat paciosi di J Dilla, quasi come se non fosse cresciuto circondato dal malcontento di Stormzy, dalla rabbia sociale di Dizzee Rascal, dal disimpegno della trap. Un ritorno alle sonorità di Premier che sono il culto dei più ortodossi, che forse non aggiunge molto, non si sforza di essere contemporaneo, ma che è tanto più potente nel suo essere controtendenza.
Il suo primo vero tour, che toccherà mezza Europa – Milano inclusa, per una volta, dopo il doloroso forfait di Kendrick – è quasi completamente sold-out, a testimoniare il successo di cui stanno godendo sia il rapper londinese che la scena hip-hop più in generale. Il tutto, dopo aver rilasciato soltanto 15 tracce. Quella di Loyle Carner non va però fraintesa come la classica favola contemporanea a base di hype, scritta a tavolino come nemmeno Dan Brown, un’anticipazione dopo l’altra (Liberato, anyone?). Si tratta infatti del frutto di un album solido, che riesce a combinare alla perfezione basi omogenee, testi efficaci e melodie orecchiabili.
Tutto in Carner ha un’atmosfera familiare, in entrambe le accezioni del termine. Da un lato, come si diceva, perché ispirata a dei suoni non nuovi, già digeriti e metabolizzati, ma che stanno tornando di prepotenza. Su tutti, il gospel, alle fondamenta di Life Of Pablo di Kanye e del rap ad alto tasso biblico di Chance the Rapper. O come quello campionato da Dre in It’s All On Me e che viene citato letteralmente in Isle Of Arran. Dall’altro, Carner è letteralmente familiare perché racconta scene quotidiane, in cui si mescolano ordinario (le conversazioni telefoniche con la madre o gli amici) e non (la morte del padre musicista, “la mia più grande ispirazione”).
Della data di Birmingham in cui l’abbiamo ascoltato ci hanno colpito due cose. In primis, il pavimento sotto i piedi, intonso a fine concerto. Chiunque abbia frequentato anche una qualsiasi discoteca di provincia sa di cosa parlo: la sensazione appiccicosa di ballare su uno strato più o meno sottile di alcool, rovesciato a terra una birra dopo l’altra. Ecco, la stragrande maggioranza del pubblico di Loyle Carner una birra non poteva ordinarla, quella sera, perché ha meno di 18 anni. Inaspettato, considerando il discorso già affrontato sulla distanza siderale dalle sonorità grime più in voga da queste parti. In secondo luogo, poi, l’atmosfera tranquilla, quasi sedata all’interno dell’O2 Institute, tremendamente diversa da quella che si respira nel 99% dei club che generalmente accolgono questa musica.
Se sicuramente la carenza di alcool ha giocato un ruolo importante, altrettanto ha contato l’attitude di Loyle Carner. D’altronde, la cover del suo disco parla chiaro: in B/N, con la famiglia al completo in posa di fronte alla propria abitazione, un vago richiamo a quella di To Pimp A Butterfly. La sostanziale differenza, però, rispetto a Kendrick Lamar, sta nel fatto che la Casa in questione, si trova a Washington, è bianca e lo è sempre stata, e chi ci si trova davanti sta festeggiando il fatto di averla finalmente espugnata. Non si tratta di una scampagnata di famiglia, insomma, di un family affair, per dirla con Sly Stone.
Ecco, non aspettatevi da Loyle Carner le tirate politiche e la tracotanza di Mos Def. Sicuramente l’età e l’inseperienza giocano il loro ruolo, ma il rapper londinese – perfettamente a suo agio sul palcoscenico, va detto – esagera un po’ con i sentimentalismi, la mano nascosta dietro alla nuca, promettendo birre ai fan delle prime file e esprimendo continuamente la propria gratitudine, a gesti e parole. Ci tiene a ribardire che nulla è cambiato, nonostante il successo, nonostante Glastonbury. Che è ancora down to earth, come dicono da queste parti, e come ha inciso indelebilmente anche sulla puntina del suo primo disco (“Ain’t nothing changed”).
Ma sono (per il momento) dettagli, perchè anche dal vivo Seamstress e Damselfly, prodotti da Tom Misch – un nome da tenere d’occhio – reggono alla grande, e c’è una varietà che molti rapper più stagionati si sognano ancora, tra la malinconia di Sun of Jean e il singolo più ritmato NO CD, che chiude il set prima che Carner ritorni sul palco, da solo, per uno spoken word inedito. Nient’altro da aggiungere se non il solito clichè che sa di minaccia: tenetelo d’occhio.