“L’infinito (dal latino finitus, cioè “limitato” con prefisso negativo in-, e solitamente denotato dal simbolo ∞ {\displaystyle \infty } , talvolta detto lemniscata) in filosofia è la qualità di ciò che non ha limiti o che non può avere una conclusione perché appunto infinito, senza-fine.” (fonte Wikipedia)
Questa definizione è essenziale per parlare in modo opportuno del quinto disco in studio degli Arcade Fire.
Cosa spinga la big band canadese a fare sempre la cosa più difficile non ci è dato saperlo, ma anche questo Everything Now è un bel salto nel vuoto considerando la loro discografia .
E non venite a dire che non è stato così per gli album passati perché scommetto che quel Reflektor che adesso fa sosta fissa nei vostri lettori all’inizio vi ha fatto storcere il muso e non poco con quei ritmi caraibici, quando voi volevate un bel Suburbs 2.
Questa volta il tema è evidentemente la discomusic di gruppi come gli ABBA. Avete capito bene, dopotutto in una recente intervista Win Butler cita proprio gli svedesi come esempio di gruppo maltrattato dalla critica contemporanea, il cui valore è uscito fuori col tempo. Che è poi quello che lo stesso Butler si augura per gli Arcade Fire.
Ma andiamo per gradi.
Dicevo l’infinito come assenza di limiti.
Se il suono dei canadesi ha sempre avuto questa caratteristica, questa volta è il disco stesso ad esser stato pensato come un contenuto infinito. Questo lo si è potuto ottenere mettendo all’inizio dei due lati (ovviamente il pensiero è al vinile o alla musicassetta) un rimando all’ultimo brano dell’altro lato.
E così il disco inizia esattamente come finisce, con i suoni dilatati di Everything_Now (Continued), il trattino basso indica il richiamo all’altro; stessa cosa vale per Infinite_Content.
La prima frase del disco, sotto un giro di piano che non farà fatica a diventare tormentone (e questo farà storcere il muso a molti) e un basso che fa eco della discomusic di cui sopra, è Every inch of sky’s got a star. Insomma la title-track messa peraltro all’inizio del disco è una dichiarazione sfrontata che sembra dire “vi piaccia o no, questo è il nostro nuovo suono“. E il carico arriva con Sign of Life. Battiti di mano ritmati come clap, basso pulsante, tromba e synth incredibilmente seventy in qualcosa che ha in sè funky, disco e black music.
Veniamo dal Canada ma è Harlem il nostro posto.
È forse questo l’approccio più evidente di Thomas Bangalter, il Daft Punk con il casco argentato, nella produzione di questo disco.
E mentre molti di voi già staranno pensando “dove sono finiti gli Arcade Fire di Funeral?” ecco che arriva, Creature Comfort, il pezzo più “Arcade Fireiano” del disco. Il synth distorto in apertura non darebbe da pensarlo, ma appena si innesta il riff di chitarra, sul tappeto di sintetizzatori, reverberato come se stesse suonando dalla cima di una montagna, si riconosce la mano di chi ha scritto pezzi come Wake Up o Sprawl II; versi come “God make me famous, if you can’t just make it painless” fanno il resto.
Questo per chi scrive è il momento più alto dell’album e forse la sua precocità è proprio uno dei difetti di questo disco.
La scialba Peter Pan ed il ritmo in levare di dubbio gusto di Chemistry (ben più catchy della precedente) possono infatti tranquillamente far deviare l’attenzione dell’ascoltatore fino alla schitarrata violenta del minuto e quarantadue di Infinite Content che segna la fine del lato A.
Dopo il rimando al brano precedente, ma in toni molto più rilassati, il disco riparte con il solo brano che vede come unica protagonista la voce di Régine Chassagne.
Un basso synth parecchio glo-fi fa dà l’innesco ad una chitarra stoppata e alla voce altissima e sognante della chanteuse che mischia Blondie agli ABBA uscendone comunque come qualcosa di assolutamente personale.
Pur non trovando la canzone brutta di per sé, non riesco a capire ancora (limite di chi scrive) perché questo brano non riesce ancora a convincermi.
Forse il testo che non è niente di che, forse quel naninaninaninaaaniii…
Abbandonati per un attimo tutti gli arrangiamenti complicati in favore di una chitarra e basso funky semplici semplici che fanno da base per i cambi di registri della voce di Butler che passa dal sussurro al falsetto come niente fosse, il pezzo più interessante del disco, oltre che il secondo apice per chi scrive, è sicuramente Put your Money on Me. Se lo si inizia ad ascoltare distrattamente è facilissimo trovarsi a dire cose tipo “non me lo ricordavo questo pezzo di Caribou“.
La base del brano potrebbe essere tranquillamente essere tratta da Andorra e l’inizio in falsetto fa il resto. Sul ritmo cadenzato poi, l’intreccio delle voci di Butler e Chassagne riescono a ricreare l’alchimia che li ha fatti amare a milioni di persone, ma in un contesto completamente nuovo (il pezzo potrebbe tranquillamente stare bene anche in un club). Poco altro c’è da dire sul resto del disco che prima di chiudersi nell’arrangiamento orchestrale di Everything Now (continued) si concede una tappa minimale (assolutamente trascurabile) con We Don’t Deserve Love.
Ma come dicevo prima l’album non ha una vera e propria fine visto che tornando al lato A troviamo ancora Everything_Now (continued) che preclude ad un nuovo ascolto del disco come naturale prosecuzione.
Questo tuffo nei seventies non ha prodotto il lavoro più bello degli Arcade Fire, non vi è dubbio. Troppi sono i brani che non rimangono in testa (se paragonati a dischi come Funeral o The Suburbs).
Ma neanche si può parlare di delusione; dopotutto i canadesi anche questa volta hanno fatto esattamente ciò che dovevano fare: un disco tanto inaspettato da ribadire ancora una volta come, al di là dei gusti, sia il genio stesso degli Arcade Fire a non avere limiti.
P.S. Come per tutti i dischi degli Arcade Fire, la prova del nove sarà il palco. È così per tutte le più grandi live band. E gli Arcade Fire sono senza dubbio una delle più grandi (secondo me La più grande) live band dagli anni 00.