A più di due anni di distanza da Ivy Tripp, Katie Crutchfield, in arte Waxahatchee, ritorna con Out in the Storm uscito lo scorso 14 luglio per Merge Records. La foto di copertina, che la ritrae in bianco e nero, spettinata dal vento, tradisce in anticipo il contenuto di questo break up album che ad oggi è forse il lavoro più intimo e onesto della musicista statunitense.
Con OITS, Waxahatchee prova ad esorcizzare la crisi rappresentata dalla fine di una storia attraverso le piccole cose che subdolamente deteriorano una relazione, facendo luce su quel momento apparentemente eterno che pochi di noi possono dire di non aver mai vissuto. L’intensità di quando improvvisamente si è costretti a bastare a se stessi e il senso di disorientamento che si prova nel fare i conti con le proprie emozioni diventano così le ossa di una creatura enorme e spaventosa che la Crutchfield scoprirà di non poter sconfiggere ma soltanto imparare a conoscere. E proprio su quelle ossa sono cuciti i dieci brani di OITS, tutti fatti della stessa sostanza, nessuno troppo diverso dal precedente. Il disco prende forma velocemente nutrendosi delle emozioni di Katie, che sono anche le nostre, che vengono sviscerate una dopo l’altra secondo una necessità dalla quale non ci si può sottrarre.
“Everyone will hear me complain / everyone will pity my pain” canta Waxahatchee in Never Been Wrong, quasi vergognandosi di quella sua umanità incontrollabile che sceglie di manifestare con l’aiuto di una voce avvolgente che ci accompagnerà lungo tutta la durata del disco e dentro la quale si possono trovare (non a caso) tracce di Dolores O’ Riordan e Alanis Morissette. Già dalle prime note infatti il sound risulta inconfondibilmente anni ’90, con una struttura sempre ben definita, chitarre ridondanti e sporche nella maggior parte dei pezzi e melodie che in ogni brano ci illudono che quello non sia il nostro primo ascolto.
Il giro di basso di 8 Ball ci fa dimenticare per un attimo l’atmosfera dell’album ingabbiando il testo in uno spazio apparentemente spensierato dal quale senza neanche accorgercene scivoliamo verso Silver, primo singolo estratto. Anche in questo caso Waxahatchee sembra uscire dal fitto bosco di Ivy Tripp e concedersi una boccata d’aria fresca cimentandosi in riff che sanno di The Breeders e Smashing Pumpkins. La presa di coscienza improvvisa che, al di fuori, il mondo intero sta continuando a girare nell’indifferenza è allo stesso tempo condanna e liberazione.
È giunto il momento di fare un passo indietro, indugiare in riflessioni più profonde, e così in Recite Remorse la Crutchfield trova finalmente il coraggio di guardarsi allo specchio e per la prima volta sembra accorgersi di aver inconsapevolmente preso le distanze da quella rottura. Nella nebbia, quando era sicura di girare in tondo stava in realtà avanzando percorrendo chilometri e ora, da lontano, si riconosce fragile e ingenua nelle sue convinzioni.
L’epifania culmina nella momentanea rinascita cantata in Sparks Fly nella quale Katie si descrive attraverso gli occhi della sorella Allison (membro della band) e ritrova la scintilla per accendere la speranza. Con Brass Beam (probabilmente uno dei pezzi più deboli dell’album) il cielo si copre di nuovo come a ricordare che la strada è ancora lunga e la serenità ancora troppo debole per sopravvivere nella tempesta. Superata la metà, OITS sembra ora subire una battuta di arresto cadendo nella monotonia di accordi troppo ripetitivi e già sentiti. Quando si inizia a temere che non regalerà niente di più di quanto si è ascoltato fin’ora, il disco sembra però decollare e Hear You riesce infatti a richiamare di nuovo l’attenzione con un ritmo più incalzante e distorsioni che si interrompono lasciando il posto a un ritornello arioso in cui Katie sembra finalmente riuscire a lasciarsi andare.
La vera liberazione arriva però con A Little More, ballad nostalgica che mette in risalto le note più fresche della voce di Waxahatchee che confessa, questa volta accettandosi senza vergogna, di sentirsi allo stesso tempo vivere e morire perdendo il contatto con una realtà che nel suo essere insensata rivela tuttavia un infinito di possibilità. No Question è il pezzo più energico dell’album e sorprende portando con sé nuove consapevolezze dopo l’isolamento di giorni passati a brancolare nel buio. I loop infiniti a cui siamo ormai abituati trovano la loro giustificazione e in quel “It sets you free” finale, ripetuto come un mantra, il pezzo si esaurisce lasciando dietro di sé un’atmosfera ipnotizzante.
OITS si conclude con Fade e finalmente la luce, quella vera, inizia a filtrare attraverso le nuvole. Non è la fine, non lo sarà ancora per un po’ ma oggi ci si concede il tempo di sentirsi bene, di familiarizzare con quella vita che non ci aveva mai colpiti prima con questa bruta realtà. Se per tutto l’album la Crutchfield aveva cercato invano il modo di scappare adesso scopre che per allontanarsi davvero sarebbe bastato continuare a camminare, nonostante l’insicurezza lo faccia sembrare un “fading away”.
Il quarto lavoro di Waxahatchee è nell’insieme un rollercoaster di emozioni claustrofobiche che si inseguono sconnesse esattamente come nella realtà, quando si è goffi nel proprio dolore e tra pianti improvvisi e attimi di euforia ci si scopre estranei a se stessi.
Musicalmente l’album prodotto da John Agnello (Dinosaur Jr, Patti Smith, The Kills, Thurston Moore) risulta omogeneo nelle sue sonorità estive che per tutto il tempo sembrano rimanere su un piano distaccato, creando un contrasto che riesce ad alleggerire un disco impegnato rendendolo perfetto per questo periodo dell’anno. Con Out In The Storm, Katie Crutchfield esce definitivamente dagli scantinati dove aveva registrato i dischi precedenti ed entra in studio (e nella vita) raggiungendo una maturità artistica evidente soprattutto nella forza evocativa dei testi, mai prima d’ora così sinceri.