Era da un po’ che non tornavano alla ribalta le Haim. Il trio californiano al femminile ci aveva lasciati qualche anno fa con una fiorita raccolta di pop e pop-rock ad alta digeribilità, vintage perché da un decennio (e forse più) va così. Si parlava allora di canzoncine solide, coinvolgenti, zuccherose quanto basta che risentivano del primato incontrastato delle influenze illustri di Phil Collins e Stevie Nicks.
Ora in Something to Tell You gli ingredienti sono gli stessi ma se possibile essi sono qui condensati ancora, in una cura maggiore di arrangiamenti, registrazione e composizione. Le melodie, così come l’uso ritmico delle voci à-la Bee Gees è perfezionato, e come l’intreccio delle chitarre e delle ritmiche. Su questo interviene uno stadio ulteriore del processo creativo. Qualcosa che ricorda l’operazione che in tutt’altro genere hanno fatto I Radiohead con Moon Shaped Pool. Un inserto pensato di elettronica che getta sparute ombre, dilata dissonanze che, rade, dipingono in una manciata di punti i neri che esaltano per contrasto i colori più vivi di questo disco. Che i video di Paul Thomas Anderson c’entrino qualcosa? Per ora non c’è bisogno di farsi troppe domande…
L’uso dell’elettronica come contrappunto alla comunicazione consueta dell’artista è frequente in questo periodo: i Radiohead, Bon Iver, e i nuovi pezzi dei National che stanno uscendo questi giorni ne sono testimoni. E per elettronica si intende tutto il –plugged, si vedano in questo disco le belle distorsioni di Kept me Crying e Right Now, i diffusi chiaroscuri di sintetizzatori cibernetici di cui sopra e la manipolazione elettronica delle voci. Annotiamo questa tendenza per ora, a servizio di chi scriverà in futuro per interpretarne la portata.
Altra moda che va e viene nel mainstream sono i tempi sbilenchi, non troppo lineari, gli attacchi insoliti che in teoria dovrebbero essere la base vitale dell’abusato 4/4. Come vuole la spada di Damocle del Pop di qualità standard, i singoli, da cantare a braccia aperte alle feste, spiccano di una spanna buona sul resto del disco. Non tutti i pezzi sono alla stessa altezza qui, come lo erano nel meno coraggioso primo album (e malgrado il chiaro e riuscito impegno non parliamo neanche qui di cuor di leone creativi). In alcuni pezzi centrali che si estendono a minutaggi lievemente più lunghi e in strutture meno omologhe si sente il segno di un pop anni ‘80 americano più generico e comprensivo, coi colori di un certo Springsteen su base Hall & Oates. Fa caso a sé la quasi Beyoncéiana Walking Away.
L’impressione generale è quella di un Groove ballabile, intricato e vegetale, di cori, chitarre e ritmi, naturali e sintetici, qui ariosi, lì elettrici, che si uniscono in un prodotto patinato ma che per lo più profuma davvero di quella vecchia cassetta che aveva mamma nella sua Golf dell’86.
Il disco scorre senza fastidi veri, ma in questo la seconda metà è peggiore della prima ed i singoli non bastano a tirarlo fuori dalla media. Diamo 6.5 a questo disco per premiare il primo lavoro di contrasto, per fare onore alla costanza che qui manca, e che è frutto di un tentativo e non di una mancanza. Mentre, inesorabilmente, cantiamo e balliamo Want You Back.