Un paio di settimane fa ero in macchina, diretto all’Auditorium di Roma per un concerto. A un punto della strada che devo percorrere c’è un concentrato di cartelloni pubblicitari di concerti, che da sempre stanno lì, ogni anno più o meno con gli stessi giganti del pop italiano, dalla Pausini a Ligabue passando per il sempiterno Vasco, ma anche cose molto più becere, tipo Arisa, Nek, Fabrizio Moro e chi ne ha più ne metta. In quel punto ci passo da tutta la vita, prima con i mezzi poi con la macchina, ed ogni volta ho alzato lo sguardo sconsolato verso le stesse facce, un po’ triste nel constatare che non cambiassero mai. Ecco, questa volta ho guardato fuori dal finestrino e, sorpresa delle sorprese, tutti i dinosauri musicali italiani erano scomparsi, al loro posto un paio di giganti manifesti del prossimo concerto romano di Nicolas Jaar. Può sembrare esagerato, ma è stata una sorta di shock, per una serie di motivi. Dal fatto che Jaar è un americano della mia generazione, nato nel ’90, alla cosa principale, la sua musica così particolare e sperimentale, molto concettuale. Così incredibilmente distante da chi di solito occupava quegli spazi pubblicitari enormemente strategici, trovandosi su una delle vie di passaggio più nevralgiche del sud di Roma.
Perché ho raccontato tutto ciò? Perché con un flash-forward poi mi trovo allo Spring Attitude Festival, divertito ed incredulo, e le sensazioni che provo in quel momento mi riportano alla mente l’episodio dei manifesti pubblicitari di qualche tempo addietro. E non posso fare a meno che sorridere e tornare a precipitarmi sotto palco per il prossimo concerto, con una piccola consapevolezza in più: l’Italia, Roma in particolare, a livello artistico, stanno smettendo rapidamente di essere provincia musicale. E di questo non potrei essere più felice. Manifestazioni come lo Spring Attitude Festival, che crescono per offerta e numeri di anno in anno, giocano un ruolo importante in questo apparente cambiamento, che speriamo tutti vivamente non sia solo un fuoco di paglia, ma qualcosa da cui dobbiamo ancora aspettarci sorprese.
Giulio Pecci
Giovedì 25
a cura di Riccardo Riccardi
Da tre anni a questa parte la prima serata, quella infrasettimanale del giovedì, si svolge all’interno di una delle cornici più belle che un festival musicale possa permettersi. Sicuramente l’intuizione di aprire le danze all’interno del MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo, creazione di Zaha Hadid, resta tra le cose più belle che ci ha regalato Spring Attitude in questi ultimi 3 anni. Una proposta musicale assolutamente contemporanea e ricercata che prende forma all’interno di uno degli edifici che più rappresentano la contemporaneità. Il teatro dell’evento che ne diventa parte.
Anche quest’anno l’emozione di entrare all’interno dei maestosi spazi del MAXXI sul calare della calda sera primaverile di Roma, si è ripresentata forte, vitale, puntuale.
Si inizia forte, fortissimo. All’interno dell’auditorium il primo live è affidata a Huerco S. Per chi non lo conoscesse, Brian Leeds è un producer americano, fiore all’occhiello della Software, etichetta di Daniel Lopatin aka Oneohtrix Point Never. Il suo ultimo lavoro targato 2016 è entrato tra i primi cinque dischi nella classifica di fine anno di Resident Advisor. No, non è uno qualunque e no, assolutamente non una scelta banale. Live ipnotico, onirico, travolgente con una componente visual azzeccatissima.
A seguire, nella sala principale si esibisce Jenny Hval. Artista di assoluta avanguardia di cui abbiamo già parlato su queste pagine e che ci regala una performance molto intensa ed emotiva.
Punto più alto della serata è certamente il live di Max Cooper, incentrato su Emergence, il suo ultimo album dello scorso anno, a mio parere uno dei progetti più interessanti e particolari degli ultimi anni nella scena elettronica europea. In questo disco il producer nativo di Belfast, ma di casa a Londra, coniuga la sua anima di scienziato (è infatti dottore in biologia computazionale da circa 10 anni) con il suo talento musicale che lo ha reso uno tra gli artisti di maggior spicco dell’ultimo decennio. Una sorta di concept album che riflette la storia del mondo naturale, dalla fase pre-big bang in cui l’unica cosa ad esistere erano i principi base della natura in uno stato astratto, fino all’era digitale moderna, dominata dalla percezione soggettiva del mondo esterno e dalla robotica che va lentamente armonizzandosi con la natura. E così che in una performance audiovisiva di alto impatto i fenomeni che sono parte integrante delle leggi naturali e a cui si ispirano i pezzi del disco in questione (Simmetry, Waves, Order from Chaos, Cyclic..), prendono forma in musica e immagini.
La serata si chiude, come è giusto che sia, con un set degno delle migliori dancefloor. Anche in questo caso scelta non banale e per niente piaciona. Moscoman è un producer di casa a Berlino ma nato a Tel Aviv. Club music world-oriented, capace di far ballare anche i più pigri e di sorprendere le orecchie più pretenziose per l’originalità e la contemporaneità del sound.
Venerdì 26 e Sabato 27
a cura di Giulio Pecci
Le serate di Venerdì e Sabato si spostano invece negli spazi del Guido Reni District, che forse non possiedono il fascino del Maxxi ma che sono sicuramente più gestibili, soprattutto in quanto ad afflusso di persone e di spazi. La serata di venerdì, rispetto a quella del giorno prima, lasciava intendere un graduale passaggio verso musica più dal vivo, impressione pienamente confermata da Sabato, pieno di esibizioni live. Ciò nonostante la principale attrazione, sicuramente quella più partecipata, sono stati i dj set di Nathan Fake e soprattutto Jon Hopkins, che hanno fatto letteralmente scoppiare la sala “grande”, con tantissime persone fin quasi sulla porta per godersi due esibizioni veramente molto intense ed impeccabili, anche se la gestione delle basse frequenze a volte è stata discutibile (problema forse riconducibile ai capannoni dell’ex caserma), rendendo la vita dei fonici un vero e proprio inferno. In ogni caso si è trattato di fastidi abbastanza trascurabili e che non sono andati ad intaccare quasi mai la godibilità delle varie esibizioni.
Altro concerto seguitissimo, a ragione, su lo Jager stage è stato quello di apertura dei Suuns che si confermano delle macchine da live, mettendo in piedi un muro sonoro incredibile a metà fra psichedelia, sonorità stoner ed elettroniche.
Per quanto mi riguarda però le vere sorprese della serata, le ho avute dal palco piccolo, il Red Bull Music Academy Stage che venerdì ha visto una proposta quasi completamente femminile (non me ne voglia Forest Swords) con Nite Jewels a scaldare l’atmosfera, seguita da un live al fulmicotone di Bonzai, che entrata all’improvviso dopo che i suoi compagni avevano iniziato a suonare da un po’ non ha mai smesso di ballare, saltare ed infuocare il palco (senza mai steccare una sola nota) in modo assolutamente inaspettato da tutta la sala che difatti si è riempita sempre di più con l’avanzare del concerto. Un’artista veramente da tenere d’occhio, con un suono ed una presenza scenica assolutamente inediti in Italia. A continuare a tenere altissima la temperatura ci ha pensato subito dopo Tommy Genesis, giovanissima MC che essendo accompagnata dalle sole basi ha avuto l’ottima idea di cercare compagnia fra il pubblico, passando così tutta la durata del concerto a cantare in mezzo alla folla, con il palco lasciato vuoto; cosa che da fuori deve aver creato non poche domande a chi era di passaggio. Anche qui, presenza scenica ed energia incredibili, oltre ad un suono interessante e personale: queste due ragazze sono state una vera e propria boccata d’aria fresca, inaspettata quasi per tutti, così come la chiusura del palco affidata ad un’altra ragazza fatta di fuoco e fiamme, Lady Leshurr, anche lei per buona parte dell’esibizione mischiata agli entusiasti e divertiti astanti. Insomma venerdì allo SA vince il girl power su tutta la linea, portatore di un’energia dal vivo e di una freschezza di suoni che non vedevo e sentivo da veramente molto tempo.
E siamo già a sabato. Come già anticipato questa è principalmente serata di live su tutte e due i palchi. A causa di un cambiamento di scaletta all’ultimo sul palco Jager, la serata inizia sul Red Bull con il francese Chassol. Un live di difficile classificazione ma di rara bellezza. Le linee melodiche jazz disegnate dal pianoforte e dai sintetizzatori sono accompagnate da una batteria suonata magistralmente, ma soprattutto da visuals che non si limitano ad essere tali, ma che sono parti integranti delle strutture delle canzoni anche e soprattutto a livello sonoro. Il risultato è a tratti di una bellezza mozzafiato sia a livello visivo che uditivo, un esperimento anche questo probabilmente mai visto su un palco italiano, che ha coinvolto tantissime persone entusiaste.
Neanche il tempo di fermarsi ad uno dei, costosissimi, bar che dall’altra parte inizia il live di Wrongonyou, artista italiano ma che di italiano ha veramente poco, da immagine a genere musicale, un pop/folk ultramoderno e sentimentale. Il concerto parte molto incerto, per problemi sul palco di rientro del suono e di feedback, ma poi decolla coinvolgendo le tante persone che conoscono a memoria le canzoni che a ragion del vero rendono molto meglio dal vivo che su disco, che forse con il pallino della “conquista delle Americhe” vengono affogate in produzioni eccessivamente spersonalizzanti.
Anche stavolta non c’è nemmeno modo di finire di sentire il concerto in corso, perché sull’altro palco sale uno dei nomi più attesi di tutti, Yussef Kamaal, alfieri inglesi del rinascimento Jazz di questi anni che abbiamo la fortuna di vivere. Il live del trio non delude le aspettative, anzi forse le supera, vista la preoccupazione dovuta alle recenti e non ben chiarite fratture interne alla band. Circa un’ora e venti di concerto che ha visto anche in questo caso la sala completamente piena ma soprattutto incredibilmente coinvolta ed entusiasta. L’abilità tecnica non scade mai in poco proficui e noiosi (soprattutto per un pubblico come quello de lo SA) narcisismi musicali, ma viene sempre sostenuta e alimentata da una fantasia ed energia d’improvvisazione incredibile, con gli ascoltatori in costante stato di esaltazione ed attesa per la prossima nota.
Poco tempo per respirare perché dopo di loro sul Red Bull Stage fa il suo ingresso un altro nome attesissimo, Romare, in versione dal vivo con polistrumentisti al seguito. Il concerto è di grandissima intensità ed impeccabile esecuzione, disturbato forse solo dal già citato problema delle frequenze basse che in questo caso sono veramente preponderanti in ogni dove e fanno sì che le persone pur di non trovarsi troppo vicine alle casse si spostino in zona centrale, anche molto dietro.
Sull’altro palco intanto va in scena Sailor & I, dj set dal vivo del musicista svedese Alexander Sjödin, una musica particolare che racchiude in sé suggestioni eighties e new wave impreziosite da liriche suggestive ed intimistiche oltre che da una produzioni curatissima. Sullo Jager la serata dei live finisce mente sul Red Bull vanno in scena prima GQOM OH feat. Nan Kolè & Mafia Boyz, che nonostante l’ora salgono sul palco carichissimi e ragalano un dj set elettrizzante, e poi Clap! Clap! in versione dal vivo.
Provando a tirare qualche conclusione, mi sento di dire che lo Spring Attitude Festival di quest’anno è stato un grande successo, sotto diversi punti di vista. I cambi di palco e gli orari delle esibizioni sono stati tutti rispettati spaccando il minuto, una cosa che personalmente non mi era mai capitata da nessun altra parte e che paradossalmente mi ha colto quasi impreparato, abituato alla mentalità della canonica mezz’ora di ritardo tollerata. L’affluenza di persone è stata più o meno costante e decisamente importante in tutte le serate, e senza presenza di persone moleste.
Infine la proposta musicale è stata studiata in modo veramente molto intelligente, in modo da far convivere sullo stesso palco generi anche molto distanti fra loro, per non parlare del coraggio nel portare sonorità inedite qui in Italia, di artisti sì conosciuti, ma molti neanche veri e proprio big per noi italiani. Può essere oggetto di discussione il prezzo dei biglietti, che magari ad un primo sguardo può sembrare elevato, ma se ci si ragiona un attimo in realtà è perfettamente corretto, considerano che ogni sera suonano circa una decina di artisti diversi, se si pensa a ciò venti euro, o anche meno, per un ingresso sono veramente pochi (ricordiamoci che ci sono persone che nel 2017 spendono 60 euro per vedere i “Deep Purple”).
Gli unici due nei che mi saltano agli occhi sono: il prezzo delle bevande, e un discorso che però probabilmente è applicabile a qualunque festival, ovvero la vicinanza dei concerti. A volte non si aveva neanche il tempo di elaborare ed apprezzare ciò che si era appena sentito che subito si ripartiva con qualcos’altro, il che toglie qualcosa all’esperienza d’ascolto, ma è anche una delle cose belle di questo tipo di situazioni. D’altronde probabilmente molti degli artisti presenti in cartellone, in Italia non avrebbero altro modo di suonare se non all’interno di un festival del genere. Quindi lunga vita ad iniziative del genere che introducono sonorità nuove ed audaci, che magari fra qualche anno saranno di dominio comune anche grazie soprattutto a questo tipo di manifestazioni.
Gran bel lavoro quello dello Spring Attitude Festival, personalmente è stata la mia prima volta alla loro corte, ma alla luce dei risultati, degli artisti scelti, della professionalità e di tutto ciò che ci siamo detti fino ad ora, non vedo già l’ora che arrivi la prossima edizione.