Siamo compromessi. Nella pura commedia umana della vita e della storia, e anche per questo sentiamo il bisogno di un livello di onestà delle parole, della musica, dell’arte più profondo. Il nuovo album di Father John Misty esce in un 7 di Aprile, e ricorderemo questa data anche come quella in cui l’America ufficializzava con un discorso di arrembaggio i bombardamenti nel territorio siriano. America di Donald Trump, America di Father John Misty, America di Pure Comedy e total entertainment, America di una rivolta in forma di lattina di Pepsi. L’ironia di Joshua Tillman è sempre stata sottile, e ha cercato di scavare dentro le profonde contraddizioni della società in cui siamo capitati: quello strato di instant reality in cui ci siamo compromessi.
Se I Love You Honeybear era il canto di un uomo innamorato nei dolorosi Stati Uniti della noia e dei subprime, Pure Comedy è un disco probabilmente meno passionale ma dolorosamente più cinico e aderente allo spirito dei tempi, che si colloca seguendo quella linea ideale che Tillman aveva abbozzato in pezzi come Bored in the Usa (l’altra faccia della medaglia della springsteniana Born in the Usa). Padre John ci ha abituato a leggere i sottotesti di quello che prova a raccontare con la musica, lo showbiz in cui sembra muoversi come un troll. Se è vera la vecchia storia che per cambiare il sistema bisogna entrarci, sporcarsi le mani, e provare ad agire in direzione inversa, allora FJM sembra tentare proprio un’operazione del genere. Lo ha fatto duettando con Lana del Rey, componendo pezzi per alcune reginette del pop, per poi rifiutare lo stesso ruolo che si era andato a ritagliare. Lo fa ancora rifiutando di passare ad etichette più grandi e rivendicando un legame morale all’etichetta indipendente con cui fa uscire i suoi dischi (la Subpop).
Taylor Swift incarna così l’amara reginetta di un sistema che si regge sull’intrattenimento. Nelle poche – ma interessanti – interviste che sta rilasciando per promuovere il disco, Tillman ha detto che il modo in cui l’umanità si sta intrattenendo oggi è abbastanza preoccupante, pensavamo che internet sarebbe stata una nuova ventata di democrazia, ma poi abbiamo scoperto che era tutta un’illusione. La domanda che allora si rincorre per tutto il disco è: sì, c’è stato un progresso okay, ma quali sono le direzioni e la forma di questo progresso? Il ritratto che ne esce fuori è ricco di ironia, satira, e vecchie battute su questa faccenda ansiogena-capitalista, e i rigurgiti di un’America troppo arrabbiata.
Not bad for a race of demented monkeys / From a cave to a city to a permanent party (Total Enterteinment Forever)
“Le persone mi dicono sin da quando ero un bambino, non saprei dire se sei serio o no“, racconta Joshua a Pitchfork. La sentiamo tutta addosso quest’eterna dose di ironia occidentale e indolente che ci è caduta sulle spalle, quest’ossessione tutta nostra civilizzata da uomini e donne bianche di specie che guardano il mondo che cambia in diretta, a botte di stories instagram, guerre, fake news, articoli di giornale ansiosi di dare il loro contributo alla faccenda umana grazie a un click baiting disperato, notifiche continue, e in mezzo a tutta questa esasperazione della contemporaneità e all’accelerazione degli eventi, i re dell’intrattenimento totale, il pop, e il noise delle strade. Non è possibile reagire con troppa serietà a tutta questa storia dell’evoluzione umana, abbiamo avuto bisogno di armarci di ironia per una sana preservazione della specie.
I ritratti in forma di canzone di Father John Misty riescono per un poco a urlarci in faccia il mondo in cui siamo finiti. Lui lo fa in maniera esistenzialista: hey uomo bianco d’America che ti prendi così sul serio, ma lo vedi che qui stiamo giocando tutti quanti una partita piuttosto assurda? che tutta la serietà che stai mettendo nel tuo attaccamento alle frontiere nazionali è solo il profondo disagio di un uomo disperato ed esasperato da una crisi più grande, della nazione, da un’ansia economica e morale, da una vocazione all’intrattenimento continuo?
Tagliata la barba e indossato il baffo, Tillman ci prende per mano e accompagna in questa pura commedia, che inizia da una title-track ballata al pianoforte. Per tutto il disco si rincorrerà un rock più soft rispetto al precedente album, il ritmo è meno incalzante, c’è chi ha tirato in ballo paragoni con Elton John o con il Neil Young di On The Beach. Ma sembra che Tillman riesca a mantenere una sua caparbia originalità, e anche se il disco appare forse meno ispirato di I Love You Honeybear, meno sperimentale (ricordate l’elettronica improvvisa di True Affection?), Pure Comedy ha una sua fisicità e profondità musicale.
Già Total Enterteinment Forever rialza il ritmo della musica, un pezzo alla chitarra decisamente più sullo stile di I Love You Honeybear. In ogni caso l’attenzione di Tillman ora sembra decisamente spostarsi sulle parole. Leaving LA dura più di 13 minuti, canzone lunghissima, che comincia con un’invocazione accompagnata da una chitarra soffusa e di atmosfera: “Oh baby, it’s time to leave / Take the van and the hearse down to New Orleans“. La canzone si apre e costruisce poco a poco, un’esplosione di strumenti entra poco a poco nel pezzo, mentre ancora Tillman continua a dipingere versi (“So I never learned to play the lead guitar / I always more preferred the speaking parts“), lasciandoci con un punto interrogativo sul finale: “I can stop drinking and you can write your script / But what we both think now is…“. Ma del resto i punti in sospeso non ci interessano..
Where did they find these goons they elected to rule them? / What makes these clowns they idolize so remarkable? (Pure Comedy)
Anche se non ne evoca mai direttamente il fantasma, il disco fa i conti con questa America in salsa trumpiana. “Mi sono chiesto, sono complice? Com’è potuto accadere? in che modo sono complice?“, l’invito di Pure Comedy è proprio quello di farsi questa domanda che riguarda questa sensazione straniante di complicità. In che modo siamo complici della cappa conservatrice e della rabbia mondiale che ci sta cadendo inevitabilmente sulle spalle? Come facciamo a rivendicare una presunta diversità – morale e umana – in questa faccenda quando siamo tutti inevitabilmente compromessi e legati, interconnessi e coinvolti nel nostro disordinato movimento di cinguettii globali?
Two Wildly Different Perspectives è la testimonianza delle due prospettive di quest’America divisa ma complice, tant’è che entrambe le prospettive finiscono per sovrapporsi: “One side says / Kill ‘em all / The other says / Line those killers up against the wall.” Ma quest’America oltre-atlantica e questo vento americano come potremmo ignorare di respirarlo anche da qui, nel cantuccio della vecchia Europa? E allora Pure Comedy diventa davvero d’attualità nella sua pretesa di raccontare e scartavetrare l’uomo occidentale contemporaneo e i suoi dissidi.
C’è una certa arrendevolezza in ogni caso, anche nell’attesa di un’ipotetica rivoluzione Tillman racconta un inaridimento e un’arrendevole amarezza (“Now I mostly spend the long days walking through the city / Empty as a tomb / Sometimes I miss the top of the food chain / But what a perfect afternoon“). Così non sorprende che ci sia una ballata alla chitarra amara come Ballad of the Dying Man. E anche un piccolo siparietto – una pausa – alla Elliott Smith, A Bigger Paper Bag, dove Tillman torna a cantarci per un attimo l’amore alla chitarra, come ci aveva abituati agli inizi: “What a fraud / What a con / You’re the only / One I love“.
Questo cantautore alla chitarra, che ha cambiato nomi e progetti (ha iniziato come batterista dei Fleet Foxes), e persino look, che ha raccontato di prendere acidi a mezzo stampa, che fa a pezzi tutte le mode mantenendosi irriducibile modaiolo, che si fa chiamare hipster mentre prende in giro gli hipster, ci ha abituato nel tempo a bei ritratti ispirati di quella cosa che è l’amore, che ora sembra diventato un rifugio per un’era votata alla rabbia in un’epoca di grandi conflitti. Una piccola speranza per alimentare quella prospettiva diversa nel bel mezzo del delirio umano, di cui parlavamo. Un’altra delle ipotesi e rotte che Tillman ci dà per alimentare quella prospettiva è provare a fare arte piuttosto che intrattenimento. Tirare fuori quella dose di umana sincerità che abbiamo dentro.
“Oh, I read somewhere / That in twenty years / More or less / This human experiment will reach its violent end / But I look at you / As our second drinks arrive / The piano player’s playing “This Must Be the Place” / And it’s a miracle to be alive“
Così si conclude il disco, con lo splendido pezzo finale di In Twenty Years Or So. “There’s nothing to fear“, sono le ultime parole di Tillman del disco. Non c’è niente di cui avere paura, perché in fondo non è cambiato granché in questa storia dell’evoluzione. Restiamo gli stessi esseri umani di sempre, con i loro difetti, ma che sanno concedersi i loro piccoli miracoli. Totalmente compromessi in un mondo impazzito, ma capaci di resistere.